Cibo e dignità

scritto da Giovanni Perini il 31 December 2015 in 20 - Dalle parole ai fatti and Opinioni e commenti con commenta

biella 20151107_093655Può darsi che a prima vista la relazione tra questi due termini – cibo e dignità – non sia immediatamente visibile. Per farla emergere partiamo dalla semplice descrizione che fa il vocabolario Devoto-Oli del termine “dignità”: «Rispetto che l’uomo, conscio del proprio valore sul piano morale, deve sentire nei confronti di se stesso e tradurre in un comportamento e in un contegno adeguati».

Ci sono qui collegati due elementi: la percezione di se stessi in quanto esseri che hanno un valore proprio e inalienabile, confermato o deturpato dalla qualità delle azioni che compiono e, potremmo aggiungere, dalle situazioni che si trovano (obbligati) a vivere.

Ora, a dispetto della cultura dell’“usa e getta”, dei vari fast-food (mangiare in fretta), del cibo usato preponderantemente per calmare gli stimoli della fame, quindi come un riempitivo dei vuoti dello stomaco e di tante altre forme con cui si presenta oggi l’assunzione di alimenti o meglio l’atto del mangiare, il cibo è una componente essenziale alla percezione della propria dignità. Lo dimostra facilmente il contrario, cioè la fame. Non la fame che uno può imporsi di sperimentare per motivi religiosi o di solidarietà o di diete, ma la fame che sopravviene, non voluta e che, oltre alle forze, mina anche il senso compiuto della propria umanità. Non per nulla si dice che la fame abbruttisce, soprattutto quando essa colpisce non soltanto un individuo, ma le persone che gli sono care, per le quali si trova incapace di prendersi cura.

 Cibo: necessità vitale e primo diritto

Ma che cosa ha il cibo da occupare un posto così essenziale nella vita dell’uomo?

Il primo dato è il più ovvio, ma non il più praticato: senza cibo l’uomo non può vivere e questa tragedia la condivide con tutti gli esseri viventi, animali o vegetali che siano. Il cibo è una necessità vitale, per questo è anche il primo diritto, negato purtroppo ancora a circa 800 milioni di persone senza distinzione tra bambini e adulti. Un grido scandaloso tanto quanto una maggiore giustizia, una più equa distribuzione delle risorse, un’economia non aggressiva e non escludente potrebbero essere una efficace via di soluzione.

È così importante che i cristiani chiedono nella preghiera che quotidianamente venga loro largito il pane necessario alla vita di quel giorno, con l’intenzione non solo di aprire a Dio la coscienza del nostro bisogno di vivere, ma anche con il sentimento e la certezza della cura di Dio per noi suoi figli e per questo rivestiti di dignità incancellabile. Scrive un autore commentando il Padre nostro: «Il pane, in quanto emblema di ogni tipo di nutrimento, è uno dei ponti che conducono l’uomo a Dio e Dio all’uomo. Esso ci consente di vivere e di vivere in maniera degna». Il cibo, la maniera di procurarselo, il modo di conservarlo e di cucinarlo, le forme del consumarlo caratterizzano la cultura di ogni popolo. Non c’è libro di antropologia che non dedichi un capitolo allo studio del cibo, e mostrano una visione corta e superficiale coloro che pensano che mangiare sia solo una questione di pancia.

Prendendo come emblema del cibo il pane, esso non nasce così, già pronto e cotto sugli alberi. È frutto della natura, ma è anche risultato del lavoro e della inventiva dell’uomo: in altri termini fa parte della sua cultura, intesa come uno specifico rapporto che gruppi di uomini intrattengono con il mondo e gli altri.

Dimensione conviviale e sociale

Il valore del cibo che comporta ulteriore dignità è dato dalla dimensione conviviale, amicale e sociale del cibo consumato insieme. I momenti importanti di un’esistenza, come nascita, riti religiosi di passaggio, matrimonio e in molti posti anche la morte sono accompagnati dal cibo preso in comune che sottolinea non solo la partecipazione alla gioia o al lutto di parenti e amici, ma richiama la comunanza di destino e di sintonia in molti aspetti della vita che fa di noi un popolo, una società, che nella misura in cui non vuole praticamente negarsi è chiamata a creare legami di amicizia, pace, solidarietà. Perché siamo tutti “esseri umani”.

In questo quadro diventa comprensibile la portata che assume per ciascuno e per tutti l’ospitalità, che si concentra attorno a un tavolo, a condividere lo stesso cibo, riconoscendo che mentre assicuro la mia dignità che riconosce il bisogno dell’altro, ridono all’altro la medesima dignità che eventualmente per povertà, disgrazia, sofferenza ha perduto.

Non per niente Paolo nella prima lettera ai Corinti esorta i cristiani ad aspettarsi/accogliersi per la cena del Signore, per non far vergognare (togliere dignità) la comunità. E questo ci porta alle ultime considerazioni. Il cristiano ha come rito centrale nella sua vita di credente un pasto, un tavolo, un pane da spezzare e condividere, attraverso una lunga processione che dice il nostro comune destino e rende evidente il processo della vita che ci conduce all’incontro con il Signore.

Questo cibo dato per tutti, nella più assoluta gratuità, al di fuori di ogni teoria del merito e al di là di ogni condizione esistenziale, questo cibo, frutto dell’amore di Cristo per ogni uomo, conduce ad uno stile e ad una concezione della vita che può essere solo la riconoscenza, il ringraziamento, il riconoscimento della grandezza di Dio, l’invito a rovesciare a nostra volta sul mondo e sugli altri tutta quella misericordiosa cura che Dio ha dimostrato per noi.

C’è ancora spazio per le nostre paure, per i nostri pregiudizi, per le nostre avarizie, i nostri rifiuti, le nostre durezze di cuore dopo che ci siamo cibati

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