Crisi: la salvezza non verrà dalla “crescita”
La crisi continua e si aggrava perché è riconducibile a un eccesso di debito che circola per il mondo rimbalzando da un posto all’altro. Con il debito, negli anni del liberismo trionfante, è stato nascosto o mitigato un gigantesco trasferimento di reddito dal lavoro al capitale nei Paesi dell’Occidente: il 10% dei rispettivi PIL. Dai “consumatori” insolventi quei debiti sono stati trasferiti a banche e assicurazioni; e da queste agli Stati con l’emissione di nuovi titoli; proprio quelli che oggi mettono in forse la solidità delle banche che ci lucrano sopra. In altri Paesi a mitigare quell’esproprio era stato un Welfare finanziato a debito: per evitare di far pagare più tasse.
Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci sarà alcuna “crescita”: né in Italia né in Europa. Ma in un’economia che non cresce, dal debito non si esce. Qualcuno deve rimetterci. Per governi e finanza devono essere i lavoratori: con una stretta feroce a salari, Welfare, occupazione, tasse sulla miseria, diritti: oggi in Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia; domani in Francia e chissà. Così, però, si stronca anche ogni ipotesi di crescita futura. Poi il pareggio di bilancio non elimina il debito pregresso; e se gli interessi aumentano, nemmeno il deficit.
Un pericoloso saccheggio
Con il procedere della crisi, l’esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo il quando; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo. Il “dibattito politico”, se ci fosse, dovrebbe vertere su questo. Invece tutti parlano di “rilanciare” una crescita che non tornerà più; o che, se anche “tornasse”, sarà talmente stentata da non poter interrompere quella spirale infernale. Mentre si parla di “crescita” qualcuno, anzi molti, si affrettano ad arraffare tutto, prima che non ci sia più niente da prendere. Proprio come i deprecati protagonisti delle rivolte inglesi; che sono al tempo stesso il prodotto di quel saccheggio e della cultura che la civiltà dei consumi e la pubblicità promuovono ogni giorno. Ma là non si tratta di rubare uno smartphone o un paio di sniker, ma di “privatizzazioni”. E poi, assalto alle pensioni (quelle dei poveri), ai salari, al Welfare, alla sanità, alla scuola, all’occupazione, al posto fisso, alle finanze dei Comuni: gli unici enti che sono, o potrebbero essere, vicini ai governati. Ovviamente è un saccheggio pericoloso: in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Medio Oriente – per non parlare dell’Islanda: infatti nessuno ne parla perché la strada del default è stata imboccata per scelta; e senza grandi danni, se non per i banchieri finiti in galera – domani in Italia, lavoratori e cittadini sfruttati e taglieggiati potrebbero ribellarsi. E non è detto che lo facciano in forme gentili. Londra insegna.
Per fare fronte a questa eventualità – scrivono i corifei del saccheggio di Stato – ci vuole una vera leadership. Quella attuale non è all’altezza: tanto è vero che quella italiana – ma non solo quella – è stata commissariata. Ma anche quella europea, che ne ha assunto la tutela, lascia a desiderare
La difesa dei “beni comuni”
Davanti a noi c’è un’altra strada; perché sedi dove si producono idee le abbiamo, anche se ancora gracili: sono i mille comitati di lotta, i centri sociali, i circoli culturali, le associazioni civiche, alcune riviste, molti blog, le associazioni studentesche, le pratiche alternative dei GAS, dei DES, delle reti di insegnanti, molte imprese sociali, alcune rappresentanze sindacali. Anche alcune idee importanti e condivise, nuove rispetto ai termini di un dibattito “politico” ormai sclerotizzato, ci sono. Ad esempio quella dei “beni comuni”: da difendere dall’accaparramento privato e dalla gestione burocratica e corrotta degli organismi statuali attraverso forme di trasparenza integrale, di controllo dal basso e di gestione partecipata; e da estendere a tutte le risorse naturali indivisibili, ai servizi pubblici, ai saperi. Poi l’idea di contrastare gli effetti del precariato con un reddito di cittadinanza. E, ancora, quella della territorializzazione dei rapporti economici: mercati agricoli e alimentari a chilometri zero; rapporti diretti con i fornitori che garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle condizioni di lavoro; coinvolgimento di tutti gli stakeholder (lavoratori, utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di ricerca, imprese fornitrici e utilizzatrici) nella riconversione di produzioni in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno spese, meno consumo di risorse, meno guerre); e impegno in tutte le attività di salvaguardia dei territori e della loro vivibilità.
Di qui la convinzione che la salvezza non verrà dalla “crescita”, che significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle condizioni di vita e dei rapporti sociali; e che i vincoli imposti dai “mercati” – dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato, dal rendimento dei BOT agli andamenti delle borse – non sono totem a cui ci si debba piegare. Lungo questi filoni di pensiero, e dentro queste pratiche e questi organismi, può prendere forma e “formarsi” una nuova “classe dirigente”: una cittadinanza attiva che si metta in grado di esautorare e sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, sia negli organismi statali e amministrativi, che nelle imprese: quelle che oggi vogliono far pagare il costo dei loro disastri a chi non ne ha mai condiviso le responsabilità, né avrebbe potuto farlo.
Ma può un movimento dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, governare e dirigere un processo di transizione di questa portata? Che per di più sta andando e andrà incontro a resistenze pesanti e reazioni violente? Certamente no. Nessuno, credo, prospetta una cosa simile. Ma le forze, le idee e la determinazione per intraprendere un percorso del genere non possono nascere in nessuna altra sede e in nessun altro modo. D’altronde non si tratta di processi isolati: le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono milioni in ogni parte della Terra. E se il processo avrà un seguito, anche molti spezzoni delle attuali classi dirigenti potrano separarsi dalla matrice in cui sono cresciute e forgiate; ma è un processo che può svilupparsi intorno a idee e sedi che oggi occorre ancora diffondere e consolidare.