Dalle migrazioni una chiamata alle responsabilità

scritto da Redazione il 3 May 2011 in 4 - Accoglienza e diffidenza and Opinioni e commenti con commenta

In questi giorni concitati in cui la regione Piemonte, consorte di tutte le altre regioni italiane ad eccezione dell’Abruzzo, è istituzionalmente impegnata sul fronte dell’accoglienza emergenziale di diverse centinaia di profughi si vivono simultaneamente almeno due atteggiamenti molto diversi tra loro. Da una parte si assiste ad un impegno eticamente alto di industriarsi per scovare opportunità di accoglienza – di primo o secondo livello – che siano in grado di offrire un riparo a persone che si pensano provate dal dolore della violenza subita.
Dall’altro compaiono come funghi – generalmente per poi sparire con altrettanta velocità – cartelli e scritte che evidenziano un senso di insoddisfazione, di ritrosia, di paura. È capitato, ad esempio, in alta Val Sangone dove sono arrivati trenta profughi, in una casa canonica adibita a temporaneo rifugio in attesa di mettere in atto processi di inclusione in quello e in altri territori della regione. Ma stessa cosa – anche se con minore impatto – è capitata in una delle belle Valli di Lanzo. Siamo di fronte ad un esempio di schizofrenia sociale? È l’eterno combattimento tra bene e male? Nulla di tutto questo.
È semplicemente l’esito dello sconcerto che la novità, improvvisa e radicalmente nuova, genera nel cuore dei singoli e nel pensare collettivo delle comunità.
Di fronte al nuovo che avanza, quel nuovo che non è produzione del nostro ingegno ma posizione dall’esterno, vocazione dall’alto, esigenza della storia le nostre certezze traballano. Ci sentiamo sprovvisti di copertura, nudi davanti ad una forma di ignoto che potrebbe essere anche dannosa per noi, soli nell’affrontare qualcosa che non ci pare ci appartenga, che pensiamo altri debbano sostenere, che non era previstanella nostra vita.

“Certezze incerte”: ecco il vero problema
La venuta di tante persone da altri contesti culturali, sociali, economici, geografici e religiosi mette a nudo quanto poco fondata sia la nostra esistenza, quanto sia posta su basi sicure in un insicuro terreno. Forti su noi, sul nostro modello di mondo e di società, sulle nostre scelte, sui nostri lidi, sulle nostre tradizioni – quelle con l’iniziale minuscola, s’intende – ci vediamo repentinamente diventare deboli, fragili, esposti. Quanta rigidità nel modello del nostro sviluppo, del modo nostrano di impostare la crescita del bene comune, delle concretizzazioni strumentali dei nostri cammini di futuro. Fragili perché con radici scoperte che non danno la linfa necessaria alla fioritura e alla maturazione dei frutti. Se, come recitava un cartello esposto nei giorni scorsi, gli stranieri devono fare loro l’impegno ad andare “fora dale bale” è perché noi siamo incerti sul nostro io, sulla nostra società, sul modo di essere cittadini e società civile, sul nostro essere uomini politici. È per questo che la paura la fa da padrona in questi come in altri momenti critici. Una paura che frena non l’afflato solidaristico – che l’Italia porta nel suo DNA e che sempre, anche adesso, emerge – ma l’assunzione di responsabilità. Individuale, certo, ma soprattutto collettiva.

La responsabilità di riflettere, decidere e agire
La questione migratoria in generale è una chiamata alla responsabilità, al farsi carico non per benevola gentilezza ma per senso profondo di giustizia e di restituzione. Responsabilità è lasciarsi interpellare, non fuggire e nascondersi dalla domanda rifugiandosi nel comodo letto del pregiudizio. Responsabilità è riflettere con serietà e ampiezza di vedute sul perché dei fenomeni, senza fermarsi alla superficie o alle pur provocatorie conseguenze su noi e sul nostro territorio. Responsabilità è avere il coraggio di decidere per il bene di tutti – un tutti collettivo in cui l’unico documento di appartenenza è la dignità umana, non la cittadinanza giuridica – e non agire parcellizzata parcellizzatamente e corporativisticamente in difesa di benefici di parte, seppur leciti.
Responsabilità è tradurre in azioni e in processi coerenti quanto si è deciso, accettando le inevitabili conseguenze che portano a modificare qualcosa di noi. Perché la responsabilità mette in gioco la relazione, tra persone e tra gruppi, tra storie di gente in cammino e storie di valori acquisiti e metabolizzati.
Responsabilità, infine, è utopia realistica, cuore aperto al meglio in scarpe ben piantate sulla terra, sogno e prassi, sguardo futuro e accettazione del limite. Un realismo che ci fa dire con forza che da soli non potremmo mai farcela a sostenere tutte le necessità che vengono dagli eventi nuovi. E che, dunque, chiede la capacità di scegliere la strada del dialogo, della sinergia, dello stare e lavorare insieme. Senza pregiudizi di parte, ma ben radicati ciascuno nella propria identità che sprigiona una luce che illumina e non abbaglia l’altro.

Tocca ai cittadini costruire il futuro
Accettare la fatica della responsabilità è l’appello che l’emergenza profughi di questo inizio 2011 pone alla società, alle persone e alla comunità dei discepoli di Cristo. Ma, per poterla davvero accettare, servono alcune pre condizioni.
Le prime sono di natura etica e afferiscono alle radici delle nostre azioni e convinzioni. Se non sappiamo scostarci dalle radici autoprodotte per lanciarci al recupero di quelle che affondano nella verità, nella capacità della nostra ragione di essere lente di filtro, nella tensione verso quei valori non negoziabili che caratterizzano l’ethos umano più vero non potremo mai accompagnare il cambiamento. Nel migliore dei casi lo subiremo con rassegnazione. E, nel caso dell’immigrazione, sarebbe una vera iattura: il futuro delle nostre terre, infatti, è e sarà da costruirsi necessariamente con il concorso di chi arriva da altri lidi.
Altre condizioni, invece, sono di natura squisitamente pubblica e risiedono nel progetto politico – inteso come costruzione della polis – che deve essere la mappa per la navigazione del nostro Paese e della nostra società. Ma, a quanto pare, questo progetto si perde dietro alle contrapposizioni spesso sterili e strumentali. Il nuovo che avanza richiede sguardo lungo, profumo di futuro, immaginazione del domani. In questo noi, cittadini qualunque, siamo quasi del tutto soli. Ce lo dobbiamo immaginare noi il futuro perché nessun progetto politico è oggi in grado di farcelo prevedere. Lo dovremmo costruire noi nella quotidianità dei nostri territori.
Non è forse l’ora di lasciare uscire dalla nostra gola il grido di richiesta di senso e di direzione per la nuova e futura vita sociale italiana? Chiediamo alla politica, alle istituzioni, al grande mondo della cultura e dell’economia di abbandonare le miopie del passato per lanciarci verso un futuro in cui la paura e le diffidenze non siano più il compagno delle scelte di fronte ai mutamenti della vita. Chiediamo loro si accogliere la sfida educativa che i segni dei tempi impongono al nostro oggi. Chiediamolo anche alle nostre comunità ecclesiali che in questo secondo decennio del terzo millennio hanno scelto proprio di puntare su tale sfaccettatura nel contributo da offrire al mondo e alle persone. Chiediamolo alle piccole comunità territoriali che, più di altre, si trovano a fare i conti con i cambiamenti repentini. Chiediamolo all’Europa perché non abbandoni al suo destino questo lembo meridionale del suo territorio, ma sappia e voglia assumersi la responsabilità della costruzione di una nuova casa comune. Chiediamolo davvero, utilizzando le nostre risorse su questo versante più che su quello del gioco in difesa. Questa è cultura, etica, civiltà. Ma anche senso concreto della fraternità.

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