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Generatività e Concilio Vaticano II

Posted By Giovanni Perini On 07/10/2012 @ 06:47 In 8 - Ripartire...,Opinioni e commenti | No Comments

[1]Chi cerca il termine “generatività” nel dizionario della lingua italiana non lo troverà! È lo scherzo che sempre fa il linguaggio che deve inventarsi, quando la mente umana non trova più tra le parole comuni la possibilità di esprimersi, di respirare, di aprirsi al nuovo.
Generatività allora è trovare nuove idee, nuovi sguardi, nuove prospettive e punti di vista, nuove sensibilità, che diano vita ad una realtà altra, che aprano sentieri inediti o inesplorati.Non per niente i sinonimi di generare sono “mettere al mondo, procreare, produrre, sviluppare, suscitare”, tutti verbi che esprimono un’azione, un intervento che fa essere qualcosa che prima non c’era o dà sviluppo a ciò che era solo in germe.
La nascita di una nuova parola è un evento interessante, perché segnala un salto di coscienza e di consapevolezza nella cultura e nelle persone. Infatti, secondo lo studioso americano Frey: «Una trasformazione della coscienza non può mai andare disgiunta da una trasformazione del linguaggio».
In genere nella storia sono gli eventi traumatici che obbligano l’uomo a riflettere e, se è il caso, a ricominciare tutto da capo. Almeno per quanto riguarda le sue convinzioni, le sue certezze, le sue illusioni, perché il trauma spezza, appunto, mette un tratto di discontinuità con il prima, si potrebbe dire che lascia un attimo con il fiato sospeso e la vertiginosa domanda: «Cosa ci sarà ancora dopo?».
Questa nuova consapevolezza è dolorosa ed è anche difficile da accettare e da coltivare come l’occasione di essere rigenerati e di generare una nuova realtà. Per noi è stata la crisi economica la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha posto molti interrogativi le cui risposte non sono né semplici né immediate. Però, contemporaneamente, ha risvegliato in molti la convinzione della necessità di un cambiamento, non nella direzione del ritorno ai livelli precedenti, soprattutto economici (perché un grande inganno è stato quello di aver posto il problema della crisi soprattutto a livello economico), ma in quella della ricerca di una nuova umanità, di una rifondazione della convivenza e delle relazioni e quindi nella ridefinizione dei valori di riferimento.
Chi va a rivedere il numero 2 di “puntidivista”, dedicato alla riflessione sulla generatività, si rende subito conto di trovarsi di fronte ad un linguaggio che richiama «novità di approccio» (Dovis), «prendersi cura e ascoltare» (Ciampolini), «distribuzione delle responsabilità » (Saraceno) e così di seguito.
La crisi insieme ad una sensazione di sconfitta generalizzata di una cultura, in particolare la nostra occidentale, di un sistema di vita, di una società nel suo insieme che investe famiglie e singole persone, ha anche prodotto (cosa vuol dire generatività!) uno scossone, ha messo in moto una ricerca, di cui purtroppo si parla ancora poco, perché una parte della cultura e dell’informazione è ancora affannosamente assorbita a presentare e rieditare incessantemente i vecchi cliché del benessere economico a tutti i costi, del consumo, della crescita irreversibile, senza voler fare i conti con il fatto che la nostra società è ormai entrata in una fase della sua storia per la quale deve trovare altrove i suoi punti di riferimento e le sue certezze. La differenza è netta e inconfondibile: cercando il cambiamento si crea speranza, dando a tutti i costi continuità con il nostro recente passato si creano illusioni.

Generatività come “ritorno alle origini”
Ma che cosa succede se applicassimo il criterio e lo stimolo della generatività al mondo della Chiesa e delle comunità cristiane? La domanda è provocata dal fatto che quest’anno ricorre il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Si può leggere il Concilio dentro la logica della generatività?
Per molti la risposta è ovviamente positiva, nonostante le numerose polemiche che si abbattono sull’interpretazione dell’evento conciliare. Generativo sì, ma di che cosa? Qui all’interno stesso della Chiesa le posizioni si dividono coprendo tutto l’arco delle possibilità, da quelle più positive a quelle più negative.
D’altra parte avere la presunzione di dare una interpretazione univoca, certa e assoluta del Vaticano II è pura presunzione, quando sappiamo che ogni «interpretazione è sempre possibile come approssimazione » (J.M. Lotman).
Se poi teniamo conto che la storia ha sempre i suoi revisori, l’unico dato incontrovertibile è che ci sia stato un Concilio dal 1962 al 1965 sotto due grandi pontificati: quelli di Giovanni XXIII e di Paolo VI.
A determinare la posizione che si prende rispetto all’evento conciliare giocano naturalmente fattori molto personali, soggettivi e di tendenza, forse anche qualche piccolo interesse nel fiutare dove tira il vento, che in questo caso dubito sia quello dello Spirito. C’è chi dà al Concilio tutte le colpe di quanto è avvenuto in seguito, come se si potesse fare la storia dei “se” e dei “ma”, leggendo nella sfera di cristallo quello chela Chiesae il mondo sarebbero stati senza un Concilio di mezzo; come anche c’è chi si interroga seriamente su cosa ne sarebbe, ora, della Chiesa senza l’intuizione di Giovanni XXIII. In ogni caso noi possiamo solo prendere atto dei fatti, non delle ipotesi, e cercare di capirli, tenendo conto della loro complessità che richiede il superamento di ogni univocità.
Oltre ai tanti fattori positivi generati dal Concilio, come l’incontro, che non si ripeteva dal Vaticano I, di tanti vescovi insieme, le amicizie nate, i dibattiti, a volte incandescenti, l’apprendimento del dialogo e del confronto, come anche l’acquisizione di uno spirito di libertà nel prendere la parola e nell’esprimere le proprie convinzioni, lo stretto rapporto di lavoro e approfondimento tra vescovi e teologi, la ricerca di equilibrio nelle posizioni, la sforzo per raggiungere una maggioranza, la più vasta possibile, mi pare significativo sottolineare due altri aspetti.
Da una parte è necessario situare l’evento conciliare nella totalità della storia della Chiesa per evitare che il confronto avvenga con tempi e forme dottrinali ed ecclesiali più o meno recenti, che hanno il grave inconveniente di prendere a misura di valutazione la lunghezza della propria vita, mentrela Chiesadi anni ne ha duemila.
È proprio questa visione di insieme che permette di capire che in definitiva dentrola Chiesanon ci sono state novità, in senso assoluto, se non per chi non conosce la storia: non è una novità l’uso della lingua locale, non lo è la diversificazione delle auto comprensioni chela Chiesaha avuto nei secoli di se stessa (ad esempio: comunità fraterna e solidale, comunità di comunità, presenza di chiese diversificate nell’organizzazione, nella liturgia, nei servizi, poi società in concorrenza o in lotta con quella civile, potere di governo, poi ancora monarchia di fronte o di sopra alle altre monarchie, realtà feudo-piramidale, e ancora accentramento romano-curiale…), non è stata una novità la liturgia eucaristica rivolta al popolo. Non è neanche una novità chela Chiesaabbia cercato formule linguistiche più consone o adatte ad esprimere la propria fede, come l’affermazione dell’unica mensa del pane e della parola, dell’unica fonte della fede, formata insieme da Scrittura e Tradizione, della struttura sinodale o collegiale del governo della Chiesa, della determinante presenza e azione dei laici, donne comprese… E così si potrebbe andare avanti nelle citazioni di ciò che a noi, perché lontani dai secoli precedenti, è sembrato nuovo, provocando gioia o scandalo a seconda delle nostre sensibilità e conoscenze.
Tutte queste cosiddette novità non sono state altro che la riscoperta di forme più antiche e, come sovente capita nella storia, nello stesso momento più adeguate ai nostri tempi, di ciò che nella Chiesa era già avvenuto. Sono stati gli studi silenziosi e coraggiosi dei liturgisti (il Movimento Liturgico) e dei biblisti (il Movimento Biblico) e dei teologi francesi e tedeschi in massima parte, che da decenni scavavano e andavano riscoprendo non solo le forme belle e preziose nascoste nel nostro passato, ma anche segnalando tutte le sovrastrutture che negli anni avevano reso difficile la comprensione del mistero di Cristo e della stessa Chiesa. In questo la generatività ha funzionato come “ritorno alle origini”, “farsi bambini”, “ritornare discepoli”, riscoprire la forza degli inizi che ha spinto la comunità cristiana dentro duemila anni di storia. La generatività comporta in sé l’esigenza chela Chiesaassuma tutto il suo passato, e non solo una parte, e che nel suo stesso passato originario trovi la strada e la forza di un suo rinnovamento

Generatività come “apertura” e “fecondità”
Il secondo elemento da prendere in considerazione mi pare sia riconducibile all’atteggiamento che si sviluppò in quegli anni nei confronti di tutto ciò che è esterno alla Chiesa: dalla società, alla cultura, alle altre religioni; atteggiamento che faceva sperare nel superamento di una sfiducia più o meno manifesta nei confronti delle realtà mondane o altre dalla Chiesa e che aveva portato precedentemente ad assumere posizioni di difesa, di chiusura, di condanna, di sospetto, avvallando l’idea che solo nella Chiesa si trova ogni verità e di conseguenza che il suo magistero è l’unico portatore di valori e indicatore di autenticità, senza peraltro rendersi pienamente conto che questa posizione sviliva l’umano e l’uomo, creatura di Dio, e non riconosceva la incondizionabile libertà dello Spirito che soffia dove vuole e che a volte parla e insegna alla Chiesa attraverso i vari Balaam (Num 22) che popolano la storia.
Quell’atteggiamento di ritrovata fiducia, mentre per alcuni ha segnato la speranza della fine di un isolamento presuntuoso della Chiesa, per altri è stato visto come il cedimento della Chiesa di fronte alla modernità. Sta di fatto che proprio durante il Concilio, Paolo VI pubblicò la sua enciclica sulla Chiesa (Ecclesiam suam), dandole per caratteristica la sua indole dialogica a cerchi sempre più vasti fino ad abbracciare il mondo.
Proprio questo è la generatività che si è manifestata nel Concilio: quella di chi sa trovare elementi di novità nel proprio passato e, invece di tenerli chiusi e protetti in un museo, ne fa il propellente per portare avanti la storia, non contro altri ma insieme pur nella differenza dei linguaggi e delle sensibilità.
La generatività non può che coniugarsi con l’apertura e la fecondità: siamo in grado di valutare di quale apertura e di quale fecondità sono portatrici le nostre comunità, oggi, a 50 anni dal Concilio?


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