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Il passo dell’intrapresa

Posted By Tiziana Ciampolini On 07/10/2012 @ 19:09 In 8 - Ripartire...,Opinioni e commenti | No Comments

[1]L a ragione per cui si è scelto di concentrare l’iniziativa “La bellezza dell’intraprendere: il punto di vista della generatività” in 100 minuti è quella di voler fare poco logos. L’idea di fondo è stata di concentrare l’attenzione sul passo dell’intrapresa, non quindi parlare di impresa e imprenditoria ma invece dell’atto dell’intraprendere, cioè quel gesto cui oggi tutti siamo chiamati per scrollarci di dosso quel senso di tristezza e di depressione che ci attanaglia. Intraprendere, “prendere tra”, afferrare, cogliere tra due spazi, cogliere in un interstizio, un gesto rapido e preciso, quello a cui siamo chiamati. Abbiamo inteso questa come un’esperienza collettiva, con lo scopo non di fare altro logos bensì di produrre idee e movimenti intorno alla grammatica di quella che noi chiamiamo “generatività”, termine che non appartiene a tanti anche se tanti lo esercitano.
Si è allestito un setting con delle esperienze, dei pensieri e delle parole, parole semplicemente proposte con umiltà e passione, poi a ognuno è stato chiesto di trovare a sua volta le parole sulle quali assumersi le proprie responsabilità.
Si è trattato di un’esperienza corale, cioè non singole persone giustapposte ma voci sintonizzate e armonizzate su un tema condiviso da molti, cioè la “generatività”.

Un tentativo di rispondere ai bisogni
Questa iniziativa è scaturita da un’esperienza di osservazione in corso da 7 anni sul tema delle vulnerabilità e dei processi di impoverimento, svolta dall’Osservatorio delle povertà e delle risorse della Caritas di Torino. Dalla prima ricerca svolta nel 2005, con la pubblicazione del volume “La città abbandonata”, sono nate due azioni: un lavoro di divulgazione della ricerca in cui abbiamo avuto cura di sottolineare l’importanza di mantenere vive e avere cura delle “legature” che tengono insieme l’Italia, perché avevamo constatato che le comunità si stavano sfilacciando e che se fosse avvenuto qualcosa di improvviso queste legature non avrebbero tenuto…. nel 2008 è poi arrivata la crisi. Poi Caritas Italiana ha promosso un’azione speciale su 10 territori italiani per progettare rispondendo ai nuovi bisogni. Caritas Torino ha anche assunto questo compito realizzando due movimenti: abbiamo continuato a studiare l’anatomia della vulnerabilità e abbiamo visto che le vite delle persone e i nostri sistemi erano molto rigidi, non erano plastici, vedevamo cioè il rischio di frantumazione. Poi abbiamo provato come Caritas a rendere il nostro sistema un po’ meno rigido, a sostegno delle persone perché vedessero altre possibilità oltre la disperazione. Intanto la crisi incalzava.
In questi anni abbiamo diffuso un appello a prestare attenzione, perché non era in atto un processo di impoverimento di qualcuno che non ci riguardava, ma erano i nostri sguardi, la nostra capacità di pensare e di agire che si stava impoverendo, irrigidendosi e appannandosi. Siamo in una situazione in cui stiamo un po’ subendo questa vulnerabilità, anche se contemporaneamente stiamo familiarizzando con la stessa, ma stiamo scoprendo che siamo un po’ tutti feriti.

Ripartire dalla vulnerabilità
Abbiamo iniziato il Novecento con il mito della forza e dell’invulnerabilità, tutto il secolo ci ha raccontato questa storia e pochi mesi fa è stato l’anniversario del disastro del Titanic, imbarcazione costruita negando la possibilità che potesse affondare…non finì neanche il primo viaggio. Robert Castel nel saggio “L’insicurezza sociale” racconta della nostra ansia di essere assicurati su tutto: più ci assicuriamo e ci assicurano e più cresce il bisogno di sicurezza. Ma c’è qualcuno che può essere sicuro della propria forza e inattaccabilità? Se andiamo al nocciolo scopriamo che abbiamo due sicurezze incontrovertibili: siamo sicuramente vulnerabili e siamo sicuramente legati gli uni agli altri. Possiamo pensare che di queste due certezze ce ne facciamo qualcosa? Possiamo pensare che da qui possiamo partire per costruire qualcosa di più solido?
Se il Novecento è iniziato con l’intrapresa dell’invincibilità, possiamo pensare che il nuovo secolo inizia con l’intrapresa della vulnerabilità, della fragilità, della porosità, della ferita che diventa feritoia? Possiamo pensare che la vulnerabilità non sia soltanto un concetto negativo? Perché la vulnerabilità è in realtà un concetto ambivalente, occorre osservarlo con cura.
L’osservazione e lo studio che stiamo facendo ci dice che la vulnerabilità è un assunto della vita umana e ci sono almeno due tipi di vulnerabilità: una che per semplificazione chiamiamo infruttuosa, quella che porta verso la china della disperazione, dell’impotenza e dell’impoverimento; poi c’è la vulnerabilità fruttuosa, quella che spinge a fare un passo oltre e che feconda, che genera. Occorre però capire di che materia sono fatte queste due vulnerabilità e acquisire le competenze per capire di che materia è fatta la vulnerabilità “buona”, quella che genera, e soprattutto diventare competenti nel maneggiarla.

Formare le capacità e le responsabilità
Secondo le osservazioni svolte finora, le due vulnerabilità non stanno su un crinale, non c’è un bilico, ma stanno su una soglia, spazio più ampio, mite e domestico; sulla soglia si possono fare dei movimenti per mettere in sicurezza il proprio passo. Ci sembra che la soglia tra vulnerabilità infruttuosa e fruttuosa possa essere attraversata: si possono capacitare le persone ad attraversare questa soglia e costruire le competenze per stare sulla soglia. Spostarsi verso la vulnerabilità che genera non è solo una questione di fortuna o genio, di talento personale, questo sarebbe profondamente ingiusto, è invece questione di capacità e responsabilità che si formano, non sono solo delle qualità personali. In Italia abbiamo formato stuoli di manager e dirigenti, ma non abbiamo formato abbastanza al passo dell’intrapresa, mancano luoghi per formare la postura dell’intrapresa. Questa responsabilità di formazione non riguarda solo le persone che devono darsi da fare, ma anche e soprattutto chi ha il compito di produrre cultura, governare i processi e mettere a disposizione risorse: occorre aprire delle strade che siano percorribili per tutti.
Un esempio di quanto detto finora è ben rappresentato dal David di Michelangelo: l’autore ci mostra un gigante di forza generato dalla vulnerabilità; David era un ragazzo, un pastore, nudo, armato solo di una fionda e davanti a sé aveva un gigante vero alto tre metri e con una corazza da 60 chili. La forza di David sta nello sguardo pieno di speranza e nella sicurezza che lui quella fionda la sa maneggiare bene. Un’altra cosa interessante è che i piedi del David non sono ben appoggiati a terra ma sono invece apparentemente instabili, perché sta per fare il passo oltre; inoltre, la statua non la voleva scolpire nessuno prima di Michelangelo, avevano desistito vari famosi scultori perché il marmo era fragile e friabile e il pezzo troppo grande e poco capace di contenere una figura antropomorfa. Michelangelo ha invece trovato la vena perché era innanzitutto un ottimo artigiano e tutta la sua vita è stata attraversata dalla vulnerabilità.


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