In Italia povertà occulte e deficit di speranza: dialogo con Marco Revelli

scritto da Redazione il 10 March 2010 in 1 - Soglie di Povertà and Approfondimenti con commenta

Negli ultimi vent’anni si è passati “dal fordismo al post fordismo”, da una società fortemente strutturata su un mondo produttivo-industriale di grandi fabbriche a una società più polverizzata, più fluida, più flessibile, più precaria e così via. Sono comparse figure di poveri prima sconosciute, in particolare il cosiddetto working poor, cioè il povero che lavora, la famiglia che ha come capo-famiglia il titolare di un posto di lavoro, lavoratore dipendente o anche a volte lavoratore autonomo, e che nonostante ciò è povera». Marco Revelli, presidente della Commissione di indagine sull’esclusione sociale cui abbiamo chiesto un parere sulla situazione italiana, spiega come da qualche anno la titolarità di un posto di lavoro non sia più una garanzia contro il rischio della povertà, fenomeno cui si può associare il termine “vulnerabilità”. Si tratta di «figure che per reddito familiare spesso si collocano non nei canoni classici del povero e che tuttavia non possono permettersi di accedere a quella serie di servizi e di beni che sono indispensabili per vivere una vita dignitosa».
Nell’ultimo anno, poi, le conseguenze della crisi economica hanno provocato una nuova trasformazione, un nuovo scatto in avanti di questo processo di sfaldamento: «Con la crisi economica – osserva Revelli – quelli che prima erano inclusi nella categoria della vulnerabilità e dei vulnerabili sono stati vulnerati in parte. Sono stati colpiti da processi di crisi che non sono processi generali e omogenei ma sono processi selettivi. Processi che colpiscono alcuni e non altri: colpiscono alcune famiglie e non altre, colpiscono alcune aree geografiche e non altre, creando una situazione a “macchia di leopardo”. E tuttavia, molte di queste famiglie che si trovavano a galleggiare sul filo dell’acqua, per così dire, sono finite sotto, hanno fatto il salto dall’essere famiglie a rischio di povertà a diventare famiglie povere».
I “nuovi poveri” sono figure impreviste e imprevedibili nelle analisi della povertà, anche per questo continua-no ad essere in parte occulti, cioè non rilevabili con gli indicatori tradizionali del reddito o della spesa mensile media: «Se uno ha fatto il mutuo o un po’ di credito al consumo, può avere anche 1.800 euro mensili ma è povero. Se uno è titolare della casa e ha fatto il mutuo non può accedere ad una serie di benefici dell’assistenza pubblica, ma è povero. Bisogna ragionare su questo» sostiene Revelli.
Assistiamo così a migliaia e migliaia di drammi familiari, di drammi individuali che vengono spesso consumati in solitudine all’interno delle pareti domestiche e che non sono condivisi né condivisibili con i compagni di lavoro o con i vicini, «perché è sufficiente, anche tra figure sociali molto omogenee, che gli uni abbiano impostato una strategia familiare basata sull’indebitamento e gli altri no per determinare una differenza clamorosa; è sufficiente che una famiglia abbia a carico un disabile e un’altra no per collocarle in universi profondamente diversi tra di loro». E sono tante, spiega Revelli, le famiglie che occultano il loro grado effettivo di povertà e che si sforzano di mantenere un’immagine esterna di benessere non più corrispondente alla loro condizione reale. Situazioni sempre più frequenti in una società italiana che, secondo l’analisi di Revelli, «vive un deficit di speranza, di fiducia, di prospettiva. L’orizzonte in cui si muovono le famiglie italiane oggi è caratterizzato dalla profonda sensazione che così come si è funzionato negli ultimi anni non si può continuare, che questo modello di vita e di consumo non è sostenibile». E tuttavia non si riesce ad uscirne fuori «perché manca una prospettiva collettiva e nessuno è in grado di uscire individualmente da questo meccanismo». Il risultato di ciò, sottolinea Revelli, è la preoccupante iper-competitività, «la rottura dei meccanismi di solidarietà e la speranza di fare il colpo più o meno fortunato che ti permetta di salvarti mentre gli altri affondano».
Queste fragilità che la crisi determina nel tessuto sociale, spesso occulte, rappresentano «il vero rischio», perché non allarmano il decisore pubblico, non costituiscono oggetto di dibattito, non innescano politiche di emergenza, facilitano la tendenza della nostra classe politica all’auto-rassicurazione e alla ras-sicurazione del pubblico e «rischiano di scavarci il terreno sotto i piedi».
Secondo Revelli, dunque, «siamo in una condizione in cui si naviga a vista in un mare nebbioso» e per questo «diventa importantissima la possibilità di scouting territoriale, cioè figure che vivono nei territori, osservano ciò che avviene e sono in grado di rielaborare tutto ciò, ritrasformarlo in proposte di intervento inedite rispetto al passato».

Print This Post