In relazione contro povertà ed esclusione sociale
Il Rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale evidenzia un aumento complessivo delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto e ai Servizi socio-assistenziali gestiti dalle Caritas Diocesane. Non solo, le storie sono sempre più complesse e coinvolgono tutta la famiglia. La fragilità occupazionale è al primo posto, le famiglie non riescono più a coprire le necessità anche più elementari. Si assiste ad una normalizzazione del profilo dell’utenza Caritas, aumentano le situazioni di povertà estrema che coesistono con una vita apparentemente normale, magari vissuta all’interno di un’abitazione di proprietà. I dati confermano solo la realtà: di recente la presidente della Circoscrizione VI di Torino ci ha raccontato di aver trovato una famiglia di ex impiegati amministrativi, licenziati, ad usare le candele per illuminare la loro casa, visto che per morosità era stata tagliata la luce dal gestore dell’utenza.
L’analisi è importante, ma ancora più importante in questo momento storico è capire come costruire cammini di speranza e visioni che vincano lo sconforto. Benedetto XVI, nell’Enciclica Caritas in veritate, sostiene la necessità di dare slancio al pensiero promuovendo una nuova sintesi umanistica a partire dall’esperienza che questa crisi ci impone: ci aspetta dunque una sfida educativa e creativa che ci permetta di avanzare, di progredire, passando attraverso un agire capace oggi di tradurre la Buona Notizia di cui siamo portatori.
Caritas realizza i suoi Rapporti di ricerca per comprendere la realtà, anche nelle sue sfaccettature più minute, ma soprattutto per svolgere il suo mandato pedagogico: quanto ascoltato va “maneggiato con cura”, responsabilmente assunto e trasformato in occasione di discernimento a favore di un cambiamento.
Proviamo allora a lanciare qualche idea rispetto alle sfide progettuali a cui ci richiamano i problemi che caratterizzano la realtà oggi.
Ripensare la nostra idea di sviluppo a partire dalla crisi
Il problema non è più solo “crescere”, ma come crescere: sia perché nei Paesi ad economia e società mature lo sviluppo quantitativo non regge più senza un investimento serio nelle dimensioni più prettamente qualitative; sia perché, in un mondo interconnesso, lo sviluppo di una regione o di una nazione non può che essere pensato in relazione a ciò che accade al di fuori dei suoi confini. Nei prossimi anni, nel mondo, in Europa, in Italia il problema sarà quello di ripensare la crescita economica senza più disgiungerla – come è stato fatto negli ultimi trent’anni – dallo sviluppo umano e sociale delle persone, dei luoghi, delle comunità.
È questa l’eredità difficile che la crisi sembra consegnarci.
Leggere la vulnerabilità anche in un altro modo
Ci siamo abituati a pensare ai poveri come a coloro che stanno ai margini delle nostre vite e delle nostre comunità, abitanti di un mondo terzo, fuori dai confini della cittadinanza (senza dimora, carcerati, prostitute, tossicodipendenti), questuanti oltre la porta delle nostre chiese.
La crisi che ci ha colpito improvvisamente ci disvela un altro mondo, fatto di nuove povertà e di nuove ricchezze: economie non occidentali che negli anni sono diventate prima “emergenti” e poi “trainanti” (Brasile, India, Sudafrica), perché lo sviluppo ha cambiato rotta e non punta più solo verso i Paesi “a sviluppo avanzato”; ceti che fino a ieri erano abbienti (o quanto meno medi e certi della propria medietà) che si impoveriscono perdendo le basi della propria ricchezza (patrimonio e reddito); istituzioni, che hanno il mandato di bilanciare con i propri interventi le diseguaglianze sociali, che perdono la propria capacità di tutela dei cittadini (troviamo qui la crisi della società“assicurata” e del Welfare State).
La crisi ci mostra la pervasività della vulnerabilità che attraversa trasversalmente gruppi, luoghi, contesti sociali tra di loro diversi ma accomunati da questo nuovo tratto, regalandoci una nuova certezza: siamo sicuramente vulnerabili. Da ciò discende la necessità di costruire un pensiero e una nuova alleanza con la vulnerabilità per poter sperimentare, contemporaneamente, la “ferita” e la “benedizione” che da essa derivano.
Le cose che possiamo fare
Di fronte ad una situazione generale che pare invitare alla rassegnazione e a sviluppare senso di impotenza, si tratta di individuare spazi di azione e di possibilità per noi e per le nostre comunità. Tra le tante cose che non possiamo fare o non possiamo fare più, ce ne sono altre che possiamo fare.
Possiamo liberarci dal pregiudizio dei confini invalicabili, naturali o necessari, aprendoci a nuove relazioni. Possiamo ripartire dal pensare e dall’agire, contemporaneamente: non bastano più i luoghi di solo pensiero e di sola azione, non è più tempo di accontentarsi di allestire tavoli di lavoro, potrebbe essere utile anche imbandirle le tavole, mangiare e lavorare insieme, fare cose concrete uscendo dall’abitudine, disponibili ad accogliere idee capaci di tenere insieme pensiero, azione e cooperazione.
Possiamo formare persone capaci di aver cura di sé, degli altri, del mondo, contemporaneamente, portatori del pensiero e della capacità della nascita, della rinascita. Persone leali, appassionate e competenti, capaci di mettere al mondo storie, in grado di dialogare in modo generoso con l’oggi creando un surplus di vita. Per questo occorre formare dentro la realtà, dentro il quotidiano attraverso la compagnia dell’altro, l’altro che mangia il pane con me: cum panis.
Possiamo costruire nuovi campi di azione: l’esperienza ci dice che la maggiore difficoltà incontrata dalle comunità è rappresentata dal coniugare il bisogno del cambiamento con le capacità necessarie per realizzarlo. Questa fragilità è dovuta prioritariamente ad un mutamento repentino del contesto sociale e degli strumenti necessari per poter intervenire su di esso. È richiesta la capacità di destreggiarsi in situazioni mutevoli: occorre passare da un pensiero “problema–soluzione” ad un pensiero mobile, capace di accogliere la ricerca delle soluzioni e non ansioso di trovarle subito, capace di riorganizzare i problemi e le risorse, capace di “costruire le risposte” in un percorso per tentativi ed errori. Non possiamo certo scoraggiarci di fronte a questo gap culturale (che necessiterà di lustri per essere riassorbito), non possiamo neppure pensare di riformare, bonificandole, tutte le nostre comunità e le loro pratiche (costruite con anni di esperienza). Possiamo invece costruire dei nuovi campi di azione che affianchino il patrimonio di attività che esistono. Questo può essere considerato utile per riallineare saperi, poteri, competenze, esperienze, pregiudizi, intraprendendo strade che risultano nuove per tutti ma su cui ciascuno può apportare la propria esperienza. Il tempo presente ci invita ad accorgerci di un cambiamento di paradigma, dove le nostre comunità mostrano il volto più autentico e più misterioso dell’umanità: la fragilità e il bisogno di legame. Ecco allora che la cura e l’ascolto potrebbero aiutarci a fare nuove le cose. È un invito a investire nella formazione di nuove capacità perché queste ci conducano a nuovi funzionamenti, ampliando la nostra possibilità di agire e di scegliere, ampliando le possibilità di “ben-essere” per gli altri e per noi.