L’Italia ancora senza un reddito minimo

scritto da Redazione il 23 January 2014 in 11 - Miraggio reddito minimo and Approfondimenti con commenta

Tanto se ne parlò che non se ne fece nulla: come troppo spesso accade in Italia, nonostante le molte proposte, le discussioni e gli annunci, gli studi, addirittura l’istituzione di un apposito Gruppo di lavoro tecnico, l’idea di introdurre una qualche forma di supporto al reddito per le persone in maggiori difficoltà economico-sociali è rimasta appunto un’idea. La legge di Stabilità (ex legge Finanziaria) votata dal Parlamento negli ultimi giorni del 2013, e che determina gli stanziamenti dello Stato per il 2014, non contiene infatti uno strumento stabile per il contrasto alla povertà lasciando l’Italia senza alcuna misura di ciò che a livello europeo è comunemente definito “reddito minimo”: tra i “vecchi” Stati membri dell’Unione Europea solo la Grecia si trova nella stessa condizione.

Un Paese, l’Italia, che invece avrebbe un gran bisogno di misure di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà, secondo quanto messo in luce dai dati forniti a fine 2013 dall’Istat (si veda anche il box a pag. 8): il 12,7% delle famiglie e il 15,8% degli individui si trova in condizione di povertà relativa, con un aumento annuale costante, mentre i poveri in senso assoluto (6,8% delle famiglie e 8% degli individui) sono addirittura raddoppiati dal 2005 ad oggi e triplicati nelle regioni del Nord. Nel corso degli anni, la condizione di povertà è peggiorata per le famiglie L’Italia ancora senza un reddito minimo numerose, con figli, soprattutto se minori, residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie con membri aggregati, in cui convivono più generazioni. Fra queste ultime una famiglia su tre è relativamente povera e una su cinque lo è in senso assoluto. Un minore su cinque vive in una famiglia in condizione di povertà relativa e uno su dieci in una famiglia in condizione di povertà assoluta (valore più che raddoppiato dal 2005).

Inoltre, sottolinea l’Istat, nel contesto europeo il sistema di trasferimenti sociali italiano è meno efficace nel contenere il rischio di povertà rispetto ad altre realtà nazionali: la quota di popolazione a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali è più bassa solo del 5% rispetto a quella prima dei trasferimenti, mentre ad esempio nei Paesi Scandinavi questa differenza supera ampiamente il 10% ed è vicina al 10% in Francia e Germania. Così, nell’indicatore “Europa 2020” che considera le persone a rischio di povertà o esclusione sociale, l’Italia ha quasi raggiunto il 30% segnando ben 5 punti percentuali in più della media europea.

Proposto un “Sostegno per l’inclusione attiva”

Anche per questa scarsa efficacia dell’attuale sistema di trasferimenti sociali si era chiesto da più parti e si auspicava l’introduzione di nuovi strumenti di contrasto alla povertà. Richieste alle quali il governo aveva risposto istituendo, con Decreto del 13 giugno 2013 da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, un Gruppo di lavoro sul reddito minimo. Tre mesi dopo, il 18 settembre 2013, tale Gruppo di tecnici ha pubblicato un Rapporto intitolato Verso la costruzione di un istituto nazionale di contrasto alla povertà, in cui confermava che «l’Italia spende per la lotta alla povertà in modo poco efficace e soprattutto in misura sensibilmente inferiore alla media dei Paesi comunitari», e osservava che «la forte caduta dei redditi delle famiglie italiane nell’attuale recessione e l’aumento preoccupante dei tassi di povertà, sia relativa che assoluta, rendono ancor più urgente che in passato colmare questa lacuna del nostro ordinamento, al fine di portare le persone alla capacità di acquisto di un paniere di beni ritenuto decoroso in relazione agli stili di vita prevalenti». Per queste ragioni, gli esperti nominati dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali proponevano l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, caratterizzata «per l’universalità, per il riferimento alle risorse economiche familiari e per la previsione di un percorso di attivazione economica e sociale dei beneficiari». Una misura «che ancora manca nel sistema di protezione sociale italiano» e che, «per sottolinearne il carattere inclusivo e di attivazione dei beneficiari, oltre che di sostegno economico» è stata denominata “Sostegno per l’inclusione attiva” (Sia). Secondo il Gruppo di lavoro, una misura come il Sia (per i dettagli si veda il box a pag. 9) «costituirebbe a regime l’evoluzione naturale e l’universalizzazione delle sperimentazioni recentemente avviate con la Carta acquisti».

Molta confusione e poca prospettiva

L’annuncio dell’introduzione del Sia aveva suscitato molte aspettative, facendo sperare nel tanto atteso adeguamento del sistema italiano agli standard europei, ma con la presentazione prima e la votazione poi della legge di Stabilità tali speranze sono rimaste vane, creando non poca confusione. Infatti, se da un lato è stato previsto lo stanziamento di circa mezzo miliardo di euro per la lotta alla povertà nelbiennio 2014-2015, dall’altro lo strumento previsto comprende due sole misure: la Carta acquisti (detta anche Social card) ordinaria e quella sperimentale. Secondo la legge di Stabilità, infatti, 120 milioni serviranno per estendere la nuova Carta a tutto il Centro-Nord fino al 2016, con 40 milioni l’anno per tre anni, mentre la riallocazione dei fondi strutturali europei 2007-2013, per un totale di circa 300 milioni di euro da utilizzare contro la povertà, servirà a prolungare la sperimentazione nell’area del Mezzogiorno per un secondo anno, fino a tutto il 2015. Interventi che segnano un passo avanti rispetto agli anni precedenti, ma che non rappresentano certo l’avvio della misura anti-povertà proposta dal Gruppo di lavoro nominato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Nonostante ciò, vari rappresentanti della maggioranza di governo e del governo stesso continuano a parlare di «misure di sostegno per l’inclusione attiva», creando non poca confusione perché utilizzano una definizione che prevedeva invece uno strumento di lotta alla povertà ben più strutturato e organico.

Così, nell’Italia che si impoverisce, anziché introdurre una qualche forma organica ormai necessaria di “reddito minimo”, come richiesto da tempo in ambito sociale, si decide di continuare a sperimentare per altri anni misure finora definite inefficaci nel contrastare la povertà.

«Le risorse stanziate contro la povertà risultano destinate alla sola estensione su tutto il territorio nazionale della nuova Carta acquisti. Una cosa senz’altro opportuna ma che da sola non configura minimamente un intervento pianificato e sistematico di contrasto alla povertà» sostengono i rappresentanti delle Acli, organizzazione che insieme a Caritas Italiana ha proposto nei mesi scorsi l’introduzione di un Reddito di inclusione sociale (vedi pag. 10). Parere simile giunge dal Forum del Terzo settore, secondo cui «manca una visione prospettica per l’elaborazione di un piano nazionale di contrasto alla povertà, come hanno gli altri Paesi europei e tenendo presente che questo avviene in un momento sociale particolarmente drammatico per l’Italia». Esprime tutta la delusione di chi aveva dato ormai per certo l’avvio di un “reddito minimo all’italiana” anche il vicedirettore di Caritas Italiana, Francesco Marsico, secondo il quale è «drammatica» l’assenza del Sostegno per l’inclusione attiva tra le misure anti-povertà: «È importante che ci sia data una spiegazione, anche di tipo finanziario, ma lasciar cadere il progetto senza nessun tipo di spiegazione è obiettivamente problematico».

 

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