Non di solo pane

scritto da Giovanni Perini il 20 December 2012 in 9 - In relazione and Opinioni e commenti con commenta

Ascoltare e osservare
Leggendo il titolo di questa riflessione, immediatamente siamo rimandati al racconto delle tentazioni di Gesù, che alla proposta di Satana di trasformare le pietre in pane risponde: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», citando così la Scrittura. D’altra parte, sempre nei vangeli, vediamo molto sovente che Gesù parla alla gente, la nutre con la sua parola. E mentre incontriamo per due volte Gesù che sfama di pane la gente, il vangelo di Marco ci ricorda che dopo il miracolo dei pani i discepoli, sulla barca, discutevano sul fatto di non avere pane, senza accorgersi che il Pane stava con loro sulla barca. Giovanni, dal canto suo, ci avverte nel lungo discorso che segue alla moltiplicazione dei pani, che vero pane e vera Parola è lo stesso Gesù:
«Parola che si fa carne e viene a fissare la sua abitazione in mezzo a noi».
Il pane è necessario alla nostra vita e ben lo sanno tutti coloro che nei Centri di ascolto o nelle mense della Caritas si sentono raccontare storie di povertà, di quelle nuove povertà su cui tante volte ci interroghiamo e che non sempre sono facili da intercettare. Tra le buone prassi che la tradizione della Chiesa ci ha fatto pervenire c’è anche quella che invita a “dar da mangiare agli affamatiâ€.
Allora tutto va bene, siamo nella linea del buone azioni, possiamo sentirci a posto?
No, non siamo tranquilli e in pace davanti a questa soluzione; percepiamo, magari confusamente, che la realtà di oggi richiede un altro approccio, un altro punto di vista, un modo diverso di affrontare questa povertà.
Per prima cosa capiamo che dobbiamo capire il mondo della povertà, che di per sé è complesso, ambiguo, contradditorio. C’è infatti una povertà scelta come stile di vita evangelico, c’è una povertà dovuta a cause legate alla storia delle persone, a volte addirittura una povertà ereditata, c’è una povertà transitoria, legata a momenti particolarmente difficili dell’esistenza, c’è ancora una povertà prodotta dal contesto sociale, dalla mancanza di lavoro, dall’accadere improvviso di certe malattie, dal venire meno della rete sociale, che poteva contenere o ridurne gli effetti, c’è anche chi trova più comodo vivere facendo leva sui sentimenti e le emozioni degli altri.
Poi c’è tutto l’enorme ambito delle povertà immateriali: la ridotta cultura, la scarsa alfabetizzazione, la disaffezione al lavoro, la perdita della capacità di stare dentro questo mondo complicato, l’abbandono di ogni responsabilità presa in cura di se stessi, a cui possiamo aggiungere i disagi psichici, la solitudine che inselvatichisce, l’uscita dal carcere che emargina socialmente, la vecchiaia.
È solo l’elenco mentale delle persone che si affacciano ai nostri servizi e che, al di là di tutte queste differenze, chiedono una cosa sola, quella immediata, legata alla sopravvivenza: cibo o l’equivalente, denaro! Ecco, il vero problema è già uscito con le parole: l’immediato, lo sguardo corto, la soddisfazione momentanea, la ripetizione dei gesti, l’immobilità della situazione, la perpetuazione del bisogno.
Basta che ci mettiamo mentalmente in un angolino delle nostre mense o dei nostri dormitori e osserviamo chi viene: qualcuno di passaggio, moltissimi quelli di sempre. Ieri, oggi e domani gli stessi volti, le stesse richieste, le stesse necessità. È questo che ci fa stare male, il fatto che mentre diamo un piatto di cibo, siamo impotenti a far evolvere la situazione e non sappiamo più capire se diamo risposte al bi ogno o se nello stesso tempo lo creiamo o almeno lo manteniamo. Certo, noi siamo stati giustamente abituati a cercare le cause delle povertà, a capirne quindi tutta l’ingiustizia, quando ci rendiamo conto che molte povertà sono prodotte, sono il frutto di una cattiva impostazione sociale ed economica, o sono il frutto dell’avidità, o dell’emarginazione o della indifferenza. Ma ora proprio per l’enorme portata del fenomeno in continua crescita (basti pensare alle statistiche: oltre l’11% di disoccupazione per gli adulti e il 36% per i giovani,a cui aggiungere l’abbandono scolastico e altre concause) non possiamo più accontentarci né delle risposte immediate, né della individuazione delle cause, e senza tralasciare queste due azioni, si rende necessario aggiungerne una terza: l’apertura di prospettive, la progettualità, in termini religiosi, almeno un accenno di speranza.
L’animale umano ha una grande capacità di adattabilità che è un pregio e un rischio, perché può addomesticare ogni ambiente, ma può anche adagiarsi e abituarsi a convivere in qualche modo con la necessità, può addirittura trovarvi un’utilità, soprattutto quando di fronte a lui si pongono persone che, con molto buon cuore, ma non con altrettanta perspicacia, si fanno in quattro per risolvere i problemi.
Non c’è nulla di peggio che vedere le cose solo settorialmente, nel nostro caso vedere il bisogno e non la persona, come non c’è nulla di peggio che spossessare le persone della loro vita, assumendola noi in tutto, niente di peggio che non riconoscere le possibilità, magari residue, di chi ci sta di fronte, la sua inderogabile responsabilità verso se stesso, perché è questo che fa essere e sentire umani: la certezza di avere qualcosa da mettere in gioco, da spendere per sé e per gli altri, trovando occasioni per prendersi cura della propria esistenza, senza deleghe in bianco, scoprendo che la vita non è vuota, ma ha un’utilità, ha in sé una potenzialità che si può attivare a beneficio della comunità umana. Non per niente san Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi (3,10) fa un’affermazione che molti cristiani oggi troverebbero scandalosa: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi».
Per dire che neppure l’estrema povertà o la mancanza del lavoro può permettere all’uomo di adagiarsi, di rinunciare, di smettere di credere alle sue possibilità.
Perdere questa dimensione profonda dell’essere umani è davvero l’estrema povertà, perché rende la persona bloccata, immobile, priva di prospettive, la fa sentire incapace e inutile e la condanna alla dipendenza e alla passività. È bello dire grazie a Dio, un po’ meno doverlo ripetere per tutto agli uomini, perché significa che non si deve più nulla a se stessi.
Questa povertà che possiamo definire interiore ha conseguenze devastanti sulla persona: la emargina da se stessa, la abbruttisce, la rende sterile, spegne il pensiero, la depriva di ogni senso di responsabilità, la rende dipendente per sempre da altri, la esclude da ogni percorso di trasformazione. Quante volte ci siamo resi conto di questa amara verità, che si manifesta a volte nei modi peggiori come espressione di diritti e di pretese sulla comunità, come rifiuto di ogni dialogo e presa di coscienza, a volte addirittura come violenza. D’altra parte chi è espulso dalla sua vita non ha molte altre scelte.
Queste povertà, sovente, nascono da ferite e sofferenze esistenziali, da devastazioni interiori, di cui a volte, parlando con gli interessati, percepiamo qualche piccolo spiraglio, che ci indica o almeno ci fa intuire la strada da intraprendere: oltre l’offerta del pane, bisogna attivare il dono della parola comprensiva, ma franca, accogliente, ma stimolante, compartecipe, ma propositiva.
C’è infatti una differenza abissale tra tamponare la povertà e ingaggiare una lotta senza quartiere contro le sue manifestazioni.

Discernere e animare
Forse fino a non tanti anni fa bastava rispondere con il pane e le cose, oggi questa risposta, se non si apre ad altre prospettive di riscatto, di ricostruzione, di fiducia, rischia di essere controproducente e di far perdurare nel tempo quello che desidereremmo avesse fine.
Anche nella lotta contro la povertà bisogna girare pagina, riprendendo a leggere in modo diverso la stessa prassi di Gesù nel vangelo. Quello che per noi è sbrigativamente un miracolo, dunque inimitabile e impercorribile, porta in sé un processo umano e una indicazione che si trasformano per noi in mete e metodi irrinunciabili.
Quando Gesù incontra una persona la rimette in piedi, la reintegra, la rimanda alla sua “casaâ€, al suo “villaggio†la rende capace di vivere la propria vita, le ridà autonomia. La persona non è solo guarita dalla sua malattia o perdonata dai suoi peccati, è molto più resa a se stessa. Non sempre questo processo è immediato e non è da tutti percorribile. A volte i vangeli lasciano ancora trasparire resistenze e difficoltà, come nel caso del cieco che viene guarito solo dopo il secondo intervento.
Mai affiora dal vangelo un’azione che Gesù compie per legare a sé le persone, renderle succubi, dipendenti, farne dei mendicanti a vita. La sua è un’azione liberatrice e trasformante e forse per questo, si può azzardare, non ha guarito tutti i malati incontrati sul suo cammino, ma si è rivolto a coloro che erano disposti e chiedevano di uscire dalla loro situazione e diventare uomini e donne liberi. Perché nessuno ha il diritto di abdicare dalla propria vita come nessuno ha il diritto di espropriare altri della loro vita, neppure per scopi caritativi. Risuona con una forza che fa pensare il suo invito: «Se vuoi», o la sua domanda: «Che cosa vuoi?». Dare non basta se non si aiuta a prendere coscienza della propria situazione, accompagnando un cammino di dignità e autonomia.
La grande e decisiva sfida che spetta alle Caritas, se vogliono condurre una lotta efficace alla povertà, sta proprio nell’entrare nella prospettiva di ridonare a coloro che bussano ai nostri servizi un’opportunità di rifare il percorso contrario a quello che li ha intrappolati nella povertà passiva.
Per riuscire a superare questa sfida è di primaria importanza la verifica del “come†noi ci avviciniamo alle persone che presentano una richiesta, “come†reagiamo emozionalmente ai loro bisogni, se prevale in noi il “nostro bisogno†di dare sempre e comunque, senza renderci conto che così sviliamo e deturpiamo le relazioni, o se il pensiero e il desiderio che siano o ridiventino persone libere e responsabili ha la meglio. Noi finiamo di essere persone per diventare distributori e loro finiscono di essere persone per diventare questuanti. Il valore assoluto della persona che noi proclamiamo in altre sedi, lo tradiamo proprio nel momento della così detta carità: senza reciprocità, senza riconoscimento vicendevole, senza coinvolgimento dell’altro, senza quel “se vuoi†che lo pone inesorabilmente davanti a se stesso, non sì dà vera relazione e quindi neanche aiuto efficace.
Tutti sappiamo che è difficile percorrere questa strada, che molte volte non ci arriderà il successo, che molti preferiranno continuare come prima, i volontari a dare e le persone a ricevere, ma così dobbiamo essere coscienti che non solo rinunciamo al principio pedagogico di Caritas, ma non avremo mai la soddisfazione di riconsegnare le persone a se stesse e dirci: siamo servi inutili, abbiamo fatto solo quello che dovevamo fare!

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