Parrocchia: Un’avventura sulla soglia
L a parrocchia, ancora oggi, è un’aspra e affascinante terra di “soglia”. “Soglia” dove si incontrano la chiesa e la strada, “soglia” dove si incrociano le esperienze umane più diverse, “soglia” dove non passa giorno in cui non ti imbatti in una nascita o una morte, in una malattia o una guarigione, in una fatica o una gioia, in un’attesa o una ricerca.
Certo, sono evidenti a tutti i limiti, le pesantezze, le lentezze dell’istituzione parrocchiale odierna: non è facile stare su una terra di “soglia”, si possono temere sorprese e attacchi da parte di nemici sconosciuti, si può rimanere prigionieri dell’insicurezza e dell’insoddisfazione. La tentazione permanente è quella di far fronte alle incertezze creando sbarramenti e muri protettivi.
Ma dove, con un po’ di coraggio, si prova a sfrondare programmi e strutture per fare spazio a volti e persone, ecco che riemerge tutto il fascino buono della parrocchia come terra di “soglia”, luogo di umanità vera e di Vangelo, luogo in cui l’altro che non conosci può diventare lo specchio della verità di te stesso e tu sei continuamente sollecitato a ri-comprendere, a metterti in gioco, a convertirti.
Presidiare quell’ardua terra di “soglia” che è la parrocchia conservando occhi aperti, orecchio teso e cuore largo, è un esercizio che fa maturare la responsabilità, fa maturare cioè risposte a coloro che si sono incontrati, ascoltati, presi a cuore. La vita che scorre, con i suoi drammi e le sue sfide, appena aldilà delle porte delle nostre chiese, ci interpella e irrompe nelle nostre assemblee; se ce ne lasciamo provocare, se permettiamo alla luce della Parola di Dio di chiarirla e alla forza dello Spirito di operarvi, ecco che possono nascere all’interno delle nostre comunità nuove forme concrete di responsabilità per l’altro e in particolare per i tanti “orfani” e “vedove” della nostra epoca.
La “parrocchia ideale
Queste scarne riflessioni sulla parrocchia sgorgano dall’esperienza di una piccola fraternità di monaci apostolici diocesani, da 15 anni presente nella città di Torino, alla maniera del piccolo seme gettato nella terra.
Incaricati, in tempi successivi, della guida pastorale di tre diverse parrocchie della Diocesi, abbiamo imparato negli anni a lasciarci sempre più provocare dal “territorio”, a lasciarci affascinare dai luoghi della vita ordinaria delle persone, dalle loro storie e dai loro problemi.
Abbiamo, certo, più volte riconosciuto e patito la distanza tra comunità “ideale” e comunità “reale”, ma abbiamo cercato di intendere questa distanza anzitutto come un pungolo a cercare più in là e ancora.
Ciò che pensiamo a proposito della parrocchia “ideale” non ha nulla di particolarmente innovativo. Che la parrocchia abbia da essere luogo di responsabilità e rappresentare “in piccolo” l’universalità della Chiesa è un auspicio tante volte avanzato dal magistero ecclesiale. Hanno scritto in proposito i vescovi italiani: «Inserita di regola nella popolazione di un territorio, la parrocchia è la comunità cristiana che ne assume la responsabilità. Ha il dovere di portare l’annuncio della fede a coloro che vi risiedono e sono lontani da essa, e deve farsi carico di tutti i problemi umani che accompagnano la vita di un popolo, per assicurare il contributo chela Chiesapuò e deve portare.
Così essa è dentro la società non solo luogo della comunione dei credenti, ma anche segno e strumento di comunione per tutti coloro che credono nei veri valori dell’uomo» (Episcopato Italiano, documento pastorale Comunione e comunità. I. Introduzione al piano pastorale, 1.10.1981, n. 44).
Lo stesso vale per la missione della parrocchia intesa come “promozione umana” di un territorio. In un documento CEI si leggono in proposito queste parole: «In forza della sua unità morale e della varietà dei suoi componenti, la parrocchia può mobilitare piccoli e grandi, persone anche di razza diversa per comuni gesti di accoglienza e di solidarietà. Per questo, accanto alla famiglia, essa rappresenta una delle prime fondamentali scuole di convivenza umana tra persone e gruppi diversi, occasione propizia per vivere piccoli e grandi gesti di condivisione» (CEI, commissione Giustizia e Pace, nota pastorale Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà, 25.3.1990, n. 39).
Affermazioni molto precise, che dipingono tuttavia un ideale ancora lontano dalla realtà effettiva delle nostre comunità, spesso più preoccupate di rafforzare la loro omogeneità interna che di costruire ospitalità e accoglienza delle diversità.
Ripartire dall’ascolto
Da dove ripartire, allora? Abbiamo ritenuto di dover ripartire dall’ascolto. Non è forse l’ascolto il comandamento primigenio: «Ascolta, Israele»? Non è forse l’ascolto la culla della responsabilità e della cura?
Sì, la parrocchia in cui crediamo è una comunità di persone che riconoscono di dover ascoltare prima di agire e perciò pongono sempre l’ascolto dell’altro al principio di ogni progetto comunitario. Ascolto dell’altro e ascolto degli altri. Ascolto della Parola di Dio, ma anche ascolto delle parole degli uomini, perché le due parole non sono separabili, anzi sono circolarmente connesse.
La Paroladi Dio, infatti, è l’unica parola capace di creare in noi un cuore abbastanza vasto per accogliere le parole degli uomini: senza la luce della Parola di Dio le parole degli uomini rimarrebbero segni ambigui e oscuri.
Ma nello stesso tempo le parole degli uomini ci sono indispensabili per comprendere dove ora si riflettela Paroladi Dio, a quali compiti ci chiama nel presente, qual è il grembo accogliente nel quale essa vuole incarnarsi e rinascere oggi.
Ricostruire reti sociali solidali
Giunti tre anni fa nella parrocchia torinese in cui attualmente risiediamo, la parrocchia del Sacro Cuore di Maria, posta entro il variegato e complesso quartiere torinese di San Salvario, ci siamo anzitutto proposti di metterci in ascolto degli uomini e delle donne che concretamente abitano le case, le vie, le piazze di quel territorio.
Grazie a un lavoro di ricerca che la Caritasdiocesana, supportata anche da alcuni parrocchiani, ha svolto tra la gente del quartiere (lavoro di ricerca poi pubblicato nel volume In precario equilibrio. Vulnerabilità sociali e rischio povertà, ed. EGA, Torino, 2009), abbiamo potuto ascoltare tante storie concrete di uomini e donne molto vicine. Storie a noi così vicine da non potersi assolutamente ignorare, ma anzi da doversi sentire anche nostre, dolorosamente nostre, impresse sulla nostra pelle e nei nostri cuori. Storie di uomini e donne separati/e con figli, storie di cinquantenni usciti anzitempo dal circuito produttivo, storie di giovani con lavoro precario, storie di anziani soli, storie di famiglie con malati cronici in carico, storie di persone che vedono avvicinarsi con sgomento lo spettro della povertà e si sentono assai “indifesi” nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Situazioni non solo di povertà estrema, ma anche, e sempre più spesso, di “quasi povertà”, di “normalità debole”, di “vulnerabilità”.
Ci siamo inoltre messi in ascolto delle persone, e sono davvero tante, che hanno già dedicato e tuttora dedicano energie, risorse, creatività, cuore nel fronteggiare vecchie e nuove povertà del quartiere: operatori sociali e sanitari, volontari di circoli e associazioni private, responsabili di servizi seri e competenti. A tutti abbiamo richiesto una riflessione su quali strategie e interventi ritenessero utili adottare per frenare la caduta dalla vulnerabilità nella povertà. Molti di loro hanno individuato nella ricostituzione di reti sociali solidali, e nell’impegno all’ascolto e all’accompagnamento delle persone, uno strumento imprescindibile di sostegno e di superamento della vulnerabilità.
Questa indicazione è stata assunta come finalità generale del progetto Caritas parrocchiale, volto non tanto a creare nuovi servizi rivolti a categorie predefinite di bisognosi, ma piuttosto a promuovere occasioni di incontro, di scambio, di partecipazione, per far crescere forme di solidarietà semplici e ordinarie, ma indispensabili a frenare la caduta nella povertà e nell’esclusione. Ciò che è più ardito in tale progetto è il metodo prescelto: il coinvolgimento in prima persona dei beneficiari dell’intervento, quei “vulnerabili” spesso costretti dalla propria precarietà a restringere i propri orizzonti di speranza, di creatività e di azione, ma nello stesso tempo ancora depositari di risorse e capacità impensate.
Alcune risposte ai bisogni
In questa prospettiva e secondo questa metodologia, nell’arco di due anni si sono avviate alcune forme pratiche di fraternità, che incarnano il sogno di una carità “vissuta comunitariamente”:
• Il progetto “Cerca la vita”, rivolto ai malati tumorali e ai loro accompagnatori e famigliari: una serie di iniziative qualificate tese a offrire un accompagnamento continuativo, umano e spirituale, lungo il tempo duro e sconvolgente della malattia.
• Il progetto “Mamme, papà & bimbi”, rivolto ai genitori di bambini tra zero e tre anni: un’offerta di incontro, dialogo, confronto, compagnia, per i papà e le mamme che affrontano il tempo entusiasmante, ma delicato, dello svezzamento dei loro piccoli.
• Il progetto “Tempo Estate”: uno spazio e un tempo di animazione estiva co-gestita con genitori e volontari per i ragazzi della parrocchia tra i 6 e i 14 anni; un’iniziativa potenzialmente estendibile anche ad altri periodi dell’anno.
• Il progetto, ancora in fieri, di un punto di accoglienza socio-sanitario, concepito non solo come luogo per fornire informazioni e smistare le persone presso i servizi più appropriati, ma soprattutto come occasione per conoscere, ascoltare, accompagnare, orientare persone e famiglie in situazioni di difficoltà e di fragilità.
• Il progetto, anch’esso ancora in cantiere, di iniziative pubbliche di dialogo e di confronto su tematiche legate alla salute e finalizzate a offrire informazione e sostegno ai malati, alle loro famiglie e ai loro accompagnatori.
Si tratta di progetti tutti volutamente flessibili, leggeri, centrati sulle persone più che sulle strutture; progetti che rispondono a bisogni che oggi ci paiono scoperti, ma che domani potrebbero non esserlo più e sono dunque facilmente sostituibili con altri.
Esercitare la “fantasia della carità”
Nel raccontare questa piccola avventura non abbiamo assolutamente preteso di “fare scuola”, consapevoli come siamo della limitatezza e della elementarità delle iniziative promosse e progettate. Invitati a una riflessione sulla nostra esperienza, abbiamo però voluto comunicare questa semplice riflessione: la parrocchia, nonostante tutti i suoi molti limiti, ci pare poter essere ancora un luogo ove si può tentare di esercitare la “fantasia della carità”, un luogo ove provare a inventare segni di fraternità, accettando la sfida dello “stare sulla soglia” e lasciandosi muovere dalla forza dell’ascolto.