Responsabilità Generativa

scritto da Pierluigi Dovis il 5 October 2010 in 2 - Responsabilità Generativa and Editoriali con commenta

Nel leggere i giornali e le riviste specializzate in economia e politiche economiche si rimane per lo meno interdetti. Si va da opinioni che riecheggiano in modo talvolta letterale i mala tempora currunt di ciceroniana memoria a pensieri di chi si ostina a rivendicare la transitorietà della situazione attuale come una sorta di normale sali scendi della vita sociale ed economica. Si stanno confezionando ricette e si lanciano, ormai quotidianamente, nuovi sistemi con la presunzione di risolvere ogni forma di crisi. Sempre si cercano cure – spesso palliative – poche volte si lavora per una novità di approccio. Nuovo risulta al massimo il processo, che si innesta prevalentemente su cliché ormai assodati: dagli stereotipi economicistici alle grandi linee di politica sociale e produttiva che hanno attraversato i tempi.
In un quadro di tali tinte l’approccio sociale ai fenomeni globali rimane – come quasi sempre – nelle retrovie, una scelta tappabuchi che varia nelle forme ma non negli obiettivi, almeno quelli reali. Necessario, utile anche elettoralisticamente, ma sempre residuale perché, a ben vedere, non interessa tutti ma solo una sparuta parte della società. Ma nova tempora currunt: quella piccola parte sta diventando sempre più grande!
Cosa dire poi della solidarietà orizzontale o della carità – per usare un termine che pare si abbia pudore di pronunciare quasi fosse un retaggio di una cultura “altra”, di un passato che non torna più, di un vetusto che non può e non deve stare ai passi dei tempi. A chi offre liberamente e gratuitamente tempo, risorse e passione per servire chi è incappato nei briganti moderni – che hanno nomi e indirizzi, ma che ormai in deroga ad ogni senso di profonda giustizia ci siamo abituati a non citare così che le responsabilità ricadano nell’etere impalpabile che tutti ripara – viene chiesto di far parte dell’esercito dei “pietosi infermieri della storia” e in tale veste vengono  onorati da tutti, tollerati anche da chi sostiene le “strutture di peccato” che tanto dolore seminano nelle nostre società.
Solidarietà e carità, welfare e buono stato sociale sarebbero, dunque, lenitivi. Sempre, ma tanto più in questa situazione di crisi e di emersione di forme alternative alle classiche povertà conosciute e affrontate nel passato.
Anche con le pagine di questo numero di “puntidivista” vogliamo dire, anzi gridare a gran voce, che non ci stiamo. Non ci stiamo né a questa definizione e tantomeno alle conseguenti scelte perché non è vero che un certo tipo di servizio vis à vis sia l’equivalente generico di un pomata anti scottature. Solidarietà e carità sono anzitutto e soprattutto generative. Lo sono certamente per natura, perché affondano le loro radici sia nella prospettiva del dono e del donarsi che in quella della gratuità.
Ma lo sono ancora di più in questo momento storico perché riescono a mettere in pista quel fattore qualitativo essenziale che pare sia l’unico in grado di aprire strade di futuro: la relazione. Quella profonda e interpersonale, s’intende, quella fatta di attenzione, ascolto, accompagnamento, vicinanza, non sostituzione, condivisione.
La relazione, come ci dice l’esperienza umana cui tutti siamo avvezzi, mette insieme sempre più profondamente e fa nascere vita, a tutti i livelli.
Una relazione che non è buonismo, semplice cuore sensibile, offerta straordinaria di un amore straordinario. È conseguenza concreta e diretta di una missione inscritta nel DNA umano per il fatto stesso del suo essere uomo. È espressione prima e più profonda di giustizia. Nasce non dall’affettività ma dalla coscienza di avere una responsabilità verso l’altro. Non una generica attenzione, ma un compito coessenziale alla mia vita di persona.
Prendermi cura dell’altro non è beneficienza: è giustizia. Ed è responsabilità. Certo, perché l’altro – come la mia stessa vita, il mondo e la storia – mi è stato affidato come ad amministratore. Ecco l’immagine che sintetizza il perché del mio essere al mondo. Come buon amministratore sono chiamato a far fruttare il bene che mi è stato consegnato, ma sono chiamato anche a trattarlo come proprietà altrui. Ovvero non da despota, ma da fratello. Dunque, proponendo relazione di ascolto ed accompagnamento, non piramidale imposizione dall’alto in basso.
La grande sfida dell’oggi del servizio – nascosto, privato, ma anche pubblico e definito dai decisori – sta nel riuscire a scoprire nel vicino una persona che non mi è dato scegliere inerisce profondamente la mia umanità. Un io non connesso inscindibilmente con un altro è qualcosa di totalmente depersonalizzato.
La vera umanizzazione non è possibile se si rifiuta di scegliere la strada della responsabilità generativa che è l’unica vera alternativa alla diade in comunicante di individuo, da un lato, e società dall’altro. E, lo si permetta ad una riflessione laica ma saldamente fondata in una antropologia ben illuminata dal Vangelo, tale responsabilità ha le radici nell’atto umano del credere nell’altro, nel domani, nella terra, nella possibilità del far germogliare eventi di prossimità.
In effetti la difficile situazione delle nuove forme di povertà non può essere né affrontata né tantomeno risolta utilizzando una logica ex alto, ma solo facendo germogliare dal basso i semi di responsabilità diffusa che sono presenti nella società. Questo è in sintesi il concetto ampio espresso anche nell’ultima lettera enciclica di Benedetto XVI che parla di fraternità. Una vera responsabilità degna dell’uomo non porta ad assumersi l’onere di decidere aprioristicamente sulla società e sulle persone. Porta a farsene carico, entrando dentro alle dinamiche della storia collettiva e personale.
Il nuovo welfare state riparte dal basso. O, meglio, dalla responsabilità condivisa in una dimensione orizzontale e verticale, dove i progetti nascono non tanto per iniziativa di chi ha preoccupazione di governare i fenomeni ma da quell’insieme di risorse umane e istituzionali che ha come obiettivo lo sviluppo contestualizzato.
Dalla crisi usciremo, è ben possibile, ma in modo diverso da come eravamo quando vi siamo entrati. Saremo nella new normal come ha definito il futuro immediato l’economista americano Bill Gross. Una diversità che impone scelte nuove anche nei metodi e nelle procedure.
L’imperativo di oggi è: mi sento responsabile del mio fratello, chiunque esso sia e chiunque io sia. Un imperativo etico che è anche sociale, politico, culturale, amministrativo, economico. Lo sforzo delle politiche sociali e delle azioni di animazione sociale deve andare in questa direzione. Basta a progetti beneficentistici che accarezzano il cuore ma non portano a “sporcarsi le mani”. Ma basta anche ad arzigogolati progetti di rilancio delle persone a solo mezzo rilancio delle strutture. Basta al solo intervento dall’alto, servono invece slanci che intreccino nuove politiche con nuove relazioni tra persone, gruppi, territori che sono oggi nascoste nella selva del quotidiano. Serve davvero costruire responsabilità diffusa e pervasiva in ogni livello della società. La Caritas di Torino ha provato a realizzarlo nel piccolo di alcuni territori, lo propone ora non come buon esempio e tanto meno come strada delle politiche sociali. Lo propone come umile e concreto tentativo di cominciare da dove essa è chiamata a cominciare: dare nuova voce alla responsabilità generativa delle comunità, delle persone perché è cosciente che la Carità non è lenitiva. È generativa di suo, visto che ricalca la dimensione sovrumana di una Parola che si è generata nella carne per trasformare ogni carne in eco profondo della Parola.

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