Patrizia Cappelletti: «Ripartire dalla città»

scritto da Redazione il 4 October 2010 in 2 - Responsabilità Generativa and Esperienze e territorio con commenta

Puntidivista 02_Image_7È fuor di dubbio che sia necessario e urgente un cambiamento nei modi con cui ogni giorno rinegoziamo quell’esperienza contraddittoria di incredibile prossimità fisica e di crescente distanza relazionale e morale che chiamiamo “convivenza urbana”.
La città, nata quale luogo della protezione e della sicurezza, rischia oggi di trasformarsi in uno spazio lacerato, disaggregato e frammentato, al cui interno tendono a coagularsi molti dei malesseri e delle inquietudini dell’uomo contemporaneo.

Non sono solo le descrizioni degli scienziati sociali a confermarcelo, lo avvertiamo sulla nostra pelle, lo captiamo guardando dentro le vite degli altri e forse anche le nostre stesse esistenze: solitudine, percezione di abbandono e di irrilevanza sociale, fragilità psichica, debolezza relazionale, mancanza di senso e di speranza si generalizzano, innestandosi su altre povertà, purtroppo per nulla in estinzione, di natura materiale, culturale e istituzionale.

A ciò si aggiunge il tragico impatto della recente crisi finanziaria globale, con le sue pesanti conseguenze socio-economiche, che ha amplificato e acutizzato il senso di smarrimento, intaccando anche quegli strati della popolazione che si pensavano essere al riparo dalla precarietà e dal bisogno e che si sono improvvisamente ritrovati soli, disarmati e disorientati ad affrontare questioni vitali quali la perdita del lavoro, uno sfratto, l’insufficienza reddituale.
Se da un lato le risposte tradizionali non sembrano essere più sufficienti, da sole, a intercettare e a soddisfare l’emergere di nuove domande sociali, dall’altro, a livello progettuale, si assiste a una generale impasse: l’investimento istituzionale, imprigionato tra imperativi di bilancio e rigidità strutturali, fatica a rinnovare il proprio impegno, se non in modo puntuale e disorganico; nondimeno la realtà civile, anch’essa frammentata, fatica a riorganizzarsi attorno a nuovi modelli maggiormente sinergici di azione e riflessione.
Da dove potranno arrivare, allora, nuovi immaginari e concrete piste di lavoro “nella” e “per” la città?

Ricucire il tessuto urbano
Infatti, se l’esperienza urbana sembra vivere una grave crisi di senso, l’ascolto delle persone, soprattutto quelle in difficoltà, dei volontari contagiati da un più generale senso di impotenza, delle organizzazioni che cercano di arginare quotidianamente questi stessi processi, dei territori in balia di trasformazioni epocali rivela, non a caso, all’insorgere di una comune domanda di “più città”, almeno così come essa è riuscita a realizzarsi nella grande tradizione civica del nostro Paese.
Come una rete smagliata non serve più, forse non è più nemmeno una rete, così questa nostra convivenza – non comunicante, solitaria, solo giustapposta, sterile di mutualità – rischia, oggi, di perdere di senso e di bellezza. Se non siamo ormai lontani dal chiederci cosa ci tiene ancora insieme, non possiamo immaginarci deprivati di quell’esperienza incarnata in un fitto intreccio di relazioni, di case e incroci, di saperi e simboli che è la città.
La realtà urbana assomiglia tanto a un tessuto strappato che attende di essere ricucito per realizzare la propria vocazione, quella di accogliere, sostenere, integrare, generare appartenenze e solidarietà. In altri termini, per continuare ad essere l’habitat entro il quale l’uomo “trova casa” nel suo senso più pieno.
La metafora della rete, se forse un po’ scontata, è però quanto mai puntuale. Perché ciò che fa una città non sono le strade o i palazzi, i servizi o gli spazi pubblici, bensì la salute e la qualità delle relazioni che nascono e si rigenerano continuamente in essa. Sono queste stesse relazioni che costituiscono la struttura più profonda del tessuto urbano. È la qualità dei legami che ne garantisce il benessere e lo sviluppo. È quindi dalle legature che occorre partire per re-immaginare le nostre città: dai rapporti interpersonali – tra vicini di casa, tra frequentanti la stessa parrocchia, tra le mamme che davanti alla scuola attendono i propri figli, tra chi si fornisce dallo stesso negoziante o passa ogni mattina per un caffè al bar dell’angolo – ma anche dai rapporti interorganizzativi tra gruppi, associazioni, movimenti ricchi di un “sapere esperienziale” da spendere, fino a quelli interistituzionali – le relazioni tra servizi, enti, aziende, istituzioni che sono in capo alle funzioni di governance e di macroprogettualità.
Cosa succede quando queste connessioni riescono a rivitalizzarsi? Cosa si produce quando individui e gruppi riescono a riposizionarsi in modo più consapevole rispetto ai processi di frammentazione e ai nuovi bisogni dell’altro? Cosa accade quando entra in scena l’ascolto dei territori, delle organizzazioni, dei singoli?

Operare su più direttrici: tempo, spazio, narrazione e socialità
Lavorare oggi sulla e nella città potrebbe significare anzitutto questo: investire sulla riscoperta e sulla rigenerazione e connessione delle legature già esistenti, nella loro multidimensionalità, dal livello micro degli incontri quotidiani fino al macrosistema-città, per immaginarne di nuove e più ampie. Ci vogliono tuttavia spalle robuste per avviare progettualità dal respiro dilatato in grado di superare gli orizzonti brevi di tanti progetti prigionieri della visibilità e rendicontazione immediata. Ci vogliono spalle robuste a livello teorico e metodologico, oltre che etico. È in gioco la ricostruzione paziente di quella intelaiatura fatta di trama e d’ordito che con molta cautela e distinguo, ben lontani dall’immagine obsoleta ed irrealistica di nido protettivo coeso e caldo, potremmo nominare “comunità”, intendendo con ciò realtà plurali, aperte ed accoglienti.
La complessità delle questioni e l’interdipendenza dei fattori in gioco sullo scacchiere urbano richiede tuttavia la capacità di operare congiuntamente su più direttrici – il tempo, lo spazio, la narrazione e la socialità.
Rispetto alla dimensione temporale, un buon punto di partenza potrebbe essere la riproposta dell’ascolto come “tempo ritrovato” della cura e della responsabilità per l’altro, senza tuttavia dimenticare il tempo per il sé personale e collettivo della formazione, della riflessione, della progettazione condivisa.
Relativamente alla seconda direttrice, può rivelarsi utile reinterpretare lo spazio del locale – a partire dal hic et nunc delle parrocchie e delle loro risorse – come luogo transitivo, poroso, disponibile a reinventarsi aperto nei confronti di chi è in difficoltà. Parliamo di spazi concreti, quindi, ma anche, al contempo, simbolici, come le soglie da attraversare per incontrare davvero, in veste di ospite, l’alterità.
Circa il tema della narrazione, appare importante investire sulle dinamiche comunicative. Non possiamo scordare, infatti, che la costruzione della comunità passa anche attraverso la riarticolazione di rappresentazioni condivise. Puntando a costruire “comunità di discorso” (la condivisione di alcuni temi quali la centralità dell’ascolto, la corresponsabilità, il quartiere come comunità locale, le persone come risorsa) oltre che di pratiche, è possibile avviare sperimentazioni interessanti avvalendosi di strumenti comunicativi inusuali (si veda a questo proposito l’esperienza torinese) al fine di marcare una differenza, per contribuire all’emergenza di una forma capace di farsi strada tra i tanti messaggi che oggi popolano il nostro mondo.
La socialità, infine, costituisce la linea di azione forse più urgente. Che sia in atto un collasso della socialità è evidente a tutti. Il deficit di benessere relazionale è riscontrabile a tutti i livelli – personale, familiare, sociale – come una sorta di smottamento che, dilagando, rende tutti e ciascuno più fragile, meno sicuro e meno libero. Questa interdipendenza si è resa manifesta a seguito della crisi: il punto di caduta in povertà di tante persone e tanti nuclei familiari è stata la mancanza di legami solidi, capaci di esprimere solidarietà e compensare con un’osmosi di risorse (non solo economiche ma anche e forse soprattutto affettive, temporali, motivazionali) le transizioni difficili.

La questione della corresponsabilità
Come ogni costruzione anche quella di una comunità richiede architetti sapienti, ingegneri accorti, manovali esperti, artisti geniali. Anche la comunità ha bisogno di apporti molteplici e polifonici e ciò chiama in causa la questione della corresponsabilità. Gli esperimenti possono restare curiosità intellettuali oppure divenire pietre miliari, punti di volta per un cambiamento che inizia a farsi improrogabile. E ciò dipende dalla misura in cui si è disponibili a lasciarsi interpellare dai “segni dei tempi”, dalle cose nuove o rinnovate che dentro le nostre città stanno nascendo. Dipende dal nostro desiderio di abbandonare posture divenute fuori tempo e luogo, per assumere nuovi sguardi, nuovi spostamenti del cuore, della mente, delle mani.
Di una cosa dobbiamo essere, infatti, consapevoli: se oggi domandiamo di “più città”, non è tuttavia di una città qualunque ciò di cui abbiamo bisogno.
Quale, allora, la città che vogliamo abitare? Qualche esperienza interessante dentro le nostre città fortunatamente non manca. A Torino, accanto a quanto già si muove in una città particolarmente attiva e propositiva, si è andato ad aggiungere un piccolo ma ambizioso percorso sperimentale promosso da Caritas Diocesana che ha cercato – a partire da una rinnovata e qualificata capacità di ascolto – di tradurre questo mandato in un accompagnamento riflessivo di persone, gruppi e territori.

Alcuni riferimenti bibliografici
• La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane a cura di Mauro Magatti per Caritas Italiana, Il Mulino, Bologna, 2007.
Un approfondito studio condotto dal progetto nazionale “Aree metropolitane” di Caritas Italiana, conla Facoltàdi Sociologia dell’Università Cattolica di Milano e le Caritas diocesane di Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catania e Palermo.
Dieci le città coinvolte nel progetto, dieci i quartieri sottoposti a capillare analisi, due anni di confronto, di indagini, di ricerca sul campo. Un percorso documentato e “vissuto”, pensato per comprendere più a fondo una realtà, quella dei margini metropolitani, di cui spesso si discute, ma (almeno in Italia) in assenza di adeguate basi scientifiche di conoscenza.

• Barriera fragile a cura di Tiziana Ciampolini, Idos, Roma, 2007.
Una fotografia del quartiere Barriera di Milano di Torino per riflettere sui processi di periferizzazione in corso nei territori urbani. La ricerca è inserita all’interno del progetto “Aree Metropolitane” condotto da Caritas Italiana con la collaborazione dell’Università Cattolica di Milano che si pone l’obiettivo di compiere un’indagine sullo stato delle periferie in Italia.

• In precario equilibrio. Vulnerabilità sociali e rischio povertà a cura dell’Osservatorio delle Povertà e delle Risorse Caritas Torino, Ega, Torino, 2009.
Un’analisi del fenomeno della vulnerabilità sociale a Torino a partire dal quartiere San Salvario, rappresentativo della nuova complessità sociale. Il testo riporta i risultati e le riflessioni di un’ampia ricerca sulle dimensioni della vulnerabilità sociale a partire dalle rappresentazioni che ne danno i soggetti e gli attori di un circoscritto territorio metropolitano con un forte valore emblematico.
La ricerca indaga il grado di significatività che il territorio e la collettività locale hanno rispetto ai processi di impoverimento, analizzati dal punto di vista dei legami sociali, delle risorse, della qualità della vita. Un’occasione per individuare nuove chiavi di lettura capaci di stimolare spunti per l’azione sociale.

• Piccolo lessico per l’ascolto a cura di Tiziana Ciampolini, Ega, Torino, 2009.
Una ricerca pedagogica per scommettere sull’ascolto come strumento per generare cambiamento. Con questo testo l’Osservatorio delle povertà e delle risorse della Caritas Torino presenta gli esiti di un complesso progetto di ricerca-azione realizzato dalla Caritas Diocesana di Torino. Al centro un esperimento sul campo per riflettere sul significato dell’ascolto come strumento per prenderci cura dell’altro, degli altri. Intento di questo quaderno è condividere con il lettore le scoperte sull’ascolto, affinché siano generative di simili esperienze.
Recentemente è stata pubblicata anche la versione in lingua inglese del testo.

• Attraversare la cura. Relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé a cura di Laura Formenti, Erickson, Trento, 2009.

L’autrice racconta una scrittura che intende prendersi cura della relazione, che ricerca la bellezza, la composizione, il ben-essere, che gioca con le parole. La relazione tra forma e contenuto, tra vincoli e possibilità, tra soggetti e istituzioni, tra dentro e fuori è il filo rosso che collega i vari capitoli. Scrivere produce a un altro livello consapevolezza del proprio pensare, pensarsi, la formazione autobiografica è «azione formatrice nel presente, in situazione, dentro un contesto: le sue condizioni sono innanzitutto relazionali».
Diventa formazione quando riesce a essere immaginativa, generativa, quando apre possibilità. Questo la rende già cura, della vita, della mente, della propria possibilità di cambiamento.
Un capitolo, intitolato Il riconoscimento nello sguardo. Curare la restituzione delle storie nella ricerca sociale, racconta l’esperienza svolta dalla Caritas Torino nel quartiere torinese Barriera di Milano. Tra le varie attività del progetto è stata allestita una mostra «per mettere in scena il territorio e restituire sguardi mancati e mancanti». La mostra ha funzione di traduzione e ricomposizione degli esiti della ricerca svolta. È così nata un’esperienza in cui tridimensionalità ed estetica hanno permesso una mobilitazione cognitiva dei cittadini e delle istituzioni. «È come se improvvisamente fosse apparso qualcosa che da sempre è lì, ma a cui tutti passano vicino senza percepirne la presenza.
Barriera di Milano era guardata ma non vista: ora è vista da tanti che stanno ponendo su essa la loro attenzione».

 

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