Stranieri in carcere perché non accolti dalla società

scritto da Redazione il 4 May 2011 in 4 - Accoglienza e diffidenza con commenta

 Intervista al direttore del carcere di Torino, Pietro Buffa
II carcere è profetico rispetto a quanto accade all’esterno ma non è al carcere che si può chiedere di essere il motore di un cambiamento di paradigma. È quanto sostiene Pietro Buffa, direttore della casa circondariale Lo Russo e Cotugno di Torino, secondo il quale a quanto accade in carcere il mondo esterno può ispirarsi per la comprensione di fenomeni complessi. Primo tra tutti l’immigrazione, che oggi pone alla società come al carcere la sfida del superamento di un «paradigma che traballa».
In carcere arrivano problemi «deflagranti» e il ruolo stesso dell’istituzione carceraria ne esce snaturato: ai detenuti stranieri, in gran parte immigrati illegali, non possono essere concesse le misure alternative che, per il nostro ordinamento penitenziario, sono il motore del reinserimento

 Qual è la situazione della popolazione straniera detenuta? Quanti sono e con quali percorsi arrivano in carcere?
La maggior parte degli stranieri che entrano in carcere vi entrano perché la comunità all’esterno non è stata accogliente. Guardando i numeri, a Torino il 64% dei detenuti è rappresentato da cittadini non italiani e sono rappresentate una sessantina di nazionalità diverse. Il carcere è profetico rispetto alla società esterna. In carcere si vede quello che si potrebbe vedere fuori tra una decina d’anni.
Recentemente l’Europa si è espressa rispetto al reato di clandestinità affermando che esso non ha più conseguenze di tipo penitenziario. Fino a questo pronunciamento, però, la maggior parte degli stranieri entravano in carcere in quanto immigrati illegali e se uno Stato arriva a darsi una norma che prevede il reato di clandestinità vuol dire che ha motivi per cercare di evitare di essere ospitale nei confronti di chi arriva da altre parti del mondo.

Può approfondire questa riflessione che lega l’ingresso in carcere degli stranieri all’incapacità da parte della società di essere accogliente?
Credo che sia un problema di paradigmi. Il paradigma che vorrebbe regolare la gestione dei flussi migratori non tiene. Bisognerebbe chiedersi perché ci sono persone disposte ad affrontare il Canale di Sicilia rischiando di morire, accettano di vivere lavando i vetri ai semafori o di vivere in una “città” nascosta tra i rovi, come quella che si scopre se si va nella periferia torinese trala Barcae Lungo Dora. Il carcere è un luogo dove molti di questi problemi poi deflagrando arrivano. Il carcere oggi è uno dei luoghi in cui, con un paradigma che traballa, vengono inviati problemi. Ma qui noi non li risolviamo, anzi il loro arrivo ha snaturato il nostro compito.

 Perché il ruolo del carcere è snaturato dall’arrivo di queste situazioni?
Il carcere dovrebbe essere quel luogo strategico per una società dove, alla frattura sociale determinata da un reato, deve corrispondere un’azione dello Stato con la partecipazione della persona per reinserirla nella società in modo più congruo rispetto al momento in cui la frattura c’è stata; un luogo di rieducazione e risocializzazione; in cui bisogna avvalersi di misure alternative che, pur in costanza di una pena, riportano gradatamente la persona nel tessuto sociale. Per il 64% delle persone che sono detenute nel carcere di Torino, però, l’applicazione di una misura alternativa non è sostanzialmente possibile perché il destino di queste persone non prevede il loro inserimento in questa società, ma al contrario ne prevede l’allontanamento, e questo snatura il ruolo del carcere e il mestiere di chi ci lavora.

Che cosa rende le misure alternative inaccessibili ai detenuti stranieri?
Ad esempio può capitare che uno straniero abbia un’opportunità che nasce in carcere, magari attraverso una cooperativa di andare a lavorare fuori secondo quanto previsto dall’art. 21 della legge sull’ordinamento penitenziario. Perché un detenuto a sette giorni dal fine pena dovrebbe rientrare sapendo che sette giorni dopo sarà segnalato alla questura per il rimpatrio? Perché non dovrebbe darsi alla macchia? E se lo fa di chi sono le responsabilità?
Altri esempi che si possono fare sono quelli del permesso premio, che prevede una residenza che gli immigrati presenti illegalmente non hanno, o della semilibertà, che prevede residenza e lavoro e quindi documenti, iscrizione agli enti di assicurazione al lavoro; un affidamento in prova necessita di una situazione tale per cui il giudice si convinca della bontà di inserire una persona nel contesto che lo aiuterà a compiere un percorso di reinserimento. Mi risulta difficile pensare che un immigrato illegale che abita in un quartiere degradato possa far riconoscere quel luogo come un contesto valido.
Per tutte queste ragioni le richieste presentate dai detenuti stranieri sono in gran parte respinte e nella maggior parte dei casi un immigrato resta in carcere, mentre quando esce si ritrova nella stessa situazione di prima: la clandestinità.

Si verificano in carcere episodi rivelatori della difficile convivenza tra persone provenienti da culture diverse?
La vera discriminante è la povertà, perché è la povertà che genera la tensione, non l’appartenenza a gruppi nazionali diversi. All’interno di un carcere chi ha più bisogno è costretto a chiedere a chi ha qualche risorsa in più e quindi è sulla sopravvivenza che nascono le tensioni. Quando le richieste di aiuto non possono più essere soddisfatte o perché non ci sono più risorse o perché chi ha più risorse si stufa di essere la cassaforte della sezione, nasceranno dei problemi che però non sono determinati dall’appartenenza etnica o religiosa ma dall’essere dipendenti o indipendenti ma necessitati nel dare.
Se ci pensiamo bene anche qua il carcere è profetico, perché è esattamente quello che succede fuori: quest’Occidente opulento e ricco al quale altri fanno riferimento per le risorse che ha.

L’istituzione carceraria è secondo lei in una dinamica di rete con altre realtà? Riesce ad essere “punto di partenza” per la ricostruzione di percorsi di accoglienza?
Il carcere, proprio perché è uno dei posti dove i problemi vengono portati, deve sopravvivere. Se il 64% della popolazione di questo istituto è rappresentato da stranieri questo ci pone un problema di convivenza, di tolleranza, di comprensione di queste persone. Noi facciamo esperimenti e realizziamo cose con tassi di gravità molto più pesanti di quelli che ci sono all’esterno, forse bisognerebbe entrare in carcere per esportare i sistemi di comprensione di questi fenomeni. Se l’esterno guardasse quello che succede in carcere potrebbe ispirarsi. Il carcere non deve essere un luogo vuoto dove la persona deve stare a meditare sul male fatto o sul proprio destino. L’ordinamento penitenziario dice che bisogna riconciliare e questa è la parola-chiave.
Non è però dal carcere che può nascere un nuovo paradigma. Un nuovo paradigma è un modo diverso di vedere le cose, e questo nuovo paradigma non può che essere frutto di un discorso che deve essere una questione che riguarda i popoli.

Il recente pronunciamento della Corte di Giustizia dell’UE, che ha dichiarato incompatibile con il diritto comunitario il reato di clandestinità, come disciplinato in Italia produrrà dei cambiamenti?
Non sono in grado di valutare questa cosa. Anche questo non è risolutivo perché il problema non è affermare un principio ma trovare un paradigma. Noi dovremmo avere una capacità più complessiva di comprensione. Se questa capacità non c’è, la soluzione si cerca in certe istituzioni come il carcere o nella loro negazione ma in entrambi i casi il problema non è risolto perché per risolverlo bisogna attrezzarsi socialmente e politicamente per capire.

Print This Post