Tutelare il modello sociale europeo, intervista ad Andrea Pierucci

scritto da Redazione il 4 October 2010 in 2 - Responsabilità Generativa and Approfondimenti con commenta

Dal micro al macro, dalle comunità locali e i quartieri urbani fino all’Unione Europea, l’azione per la tutela dei diritti fondamentali per essere efficace deve essere svolta a tutti i livelli. Le responsabilità sono quindi di vario tipo e investono anche le istituzioni europee, chiamate al difficile compito di conciliare la salvaguardia del cosiddetto “modello sociale europeo†con le nuove esigenze di una società in trasformazione e soprattutto con la necessaria sostenibilità economica e sociale.
Del ruolo e delle responsabilità dell’Unione Europea (UE) nella tutela dei diritti dei cittadini abbiamo parlato con Andrea Pierucci, attualmente capo di gabinetto della presidenza del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE). Il CESE è un organo consultivo incaricato di rappresentare datori di lavoro, sindacati, agricoltori, consumatori e altri gruppi d’interesse che costituiscono collettivamente la “società civile organizzata†a livello europeo. Il suo ruolo è di esporre i pareri e difendere gli interessi delle varie categorie socioeconomiche nel dibattito politico conla Commissione, il Consiglio e il Parlamento europei. Il mandato del CESE è dunque quello di fare da ponte fra l’UE e i suoi cittadini, promuovendo un modello di società democratica di tipo più partecipativo e inclusivo.

Il 2010 è un anno particolare per l’Unione Europa. Alle prese con le gravi ricadute sociali della crisi finanziario- economica, l’UE con un rinnovato assetto istituzionale si trova a dover definire le linee guida per il superamento della crisi cercando di conciliare sostenibilità economica, sociale e ambientale. Il tutto avviene in un Anno europeo, dedicato alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale, forse mai così legato alla situazione contingente. Giunti ormai a tre quarti dell’anno in corso, qual è il giudizio del CESE sull’azione svolta sin qui dall’UE ?
Il CESE ha svolto una doppia azione in questo settore. Da un lato ha affrontato il problema della crisi finanziaria, economica e poi sociale, mettendo in luce fin dal novembre 2008 il rischio di un impatto drammatico sulla società, in particolare in termini di disoccupazione e di incremento della povertà. Relativamente alla questione della povertà, il Comitato ha indetto una grande iniziativa di dibattito su “L’educazione per combattere l’esclusione sociale†a Firenze nel maggio 2010 con un’ampia partecipazione di soggetti interessati, al livello politico e sociale, con la partecipazione di alcune centinaia di ONG e con un’attenzione particolare a categorie di persone in difficoltà. Il Comitato ha poi apprezzato l’azione della Commissione per fissare obiettivi cifrati di riduzione della povertà nei diversi Stati membri, nonché la ferma reazione ai recenti sviluppi dell’azione di alcuni Paesi a danno dei rom. D’altra parte, il Comitato ha incitato le istituzioni, spesso alquanto tiepide, a intervenire direttamente sul riassorbimento della disoccupazione e sul mantenimento degli ammortizzatori sociali anche dopo la loro scadenza, per evitare d’ingrossare le file dei più poveri. Il Comitato insiste per un’azione europea su queste materie, allorché il problema è comune all’insieme degli europei. Si è probabilmente persa l’occasione, a causa del timore degli Stati membri di andare più avanti, di lanciare una politica sociale europea. Il presidente del CESE, Mario Sepi, ha anche lanciato una serie di specifiche proposte per reperire i fondi necessari al livello europeo e permetterne un’allocazione più razionale. In quest’ultimo biennio il Comitato ha quindi dedicato buona parte della sua attenzione ai problemi dei diritti e al bisogno di solidarietà.

Si parla molto della necessità di «modernizzare» il cosiddetto modello sociale europeo per garantirne la sostenibilità, una «modernizzazione» che contiene però il rischio di un abbassamento del livello di diritti sociali. Ma quali sono i cardini di questo modello sociale e gli elementi che devono essere assolutamente salvaguardati?
Il modello sociale è fondato essenzialmente sul presupposto della solidarietà. È una caratteristica specifica delle società degli Stati membri e dell’Unione Europea nel suo complesso. Lascia molto perplessi l’affermazione dei detrattori del “modello europeo†secondo la quale esistono tanti modelli europei. Questo è certo vero se si considera la composizione dei singoli “pacchetti†nazionali di misure sociali. È molto meno vero se si analizzano i principi. Il primo di questi riguarda una società aperta e democratica, un’autorità pubblica disponibile al dialogo con i cittadini. Il secondo riguarda, appunto, la solidarietà quando i cittadini ne hanno particolarmente bisogno, sia per coincidenze gioiose (per esempio se nascono dei figli), sia dolorose (vecchiaia, malattia, disoccupazione, ecc.), sia per riequilibrare situazioni sociali estremamente ingiuste.
Certo, un modello sociale deve essere adattato alla realtà e ai bisogni reali dei cittadini; non può essere immutabile, altrimenti si creano inutili privilegi o si tralasciano situazioni nuove o che si manifestano in modo più drammatico. Per esempio, si deve tener presente l’aumento della speranza di vita o il conseguente invecchiamento medio della popolazione, correlato però allo sviluppo dei processi d’immigrazione. Oppure, si può tener conto della concorrenza internazionale nel definire salari e costi connessi. Ma il rischio grave è che si mettano in causa principi di fondo quale quello di solidarietà. È un po’ la tendenza legata all’ideologia ultraliberista che non è certo favorevole al principio di solidarietà. Viceversa, salvaguardando i principi, il modello si è costantemente evoluto, includendo situazioni nuove o facendo attenzione a realtà mutevoli (esempi di segno diverso possono essere la creazione della cassa integrazione o la soppressione delle pensioni “baby†in particolare in alcuni settori dell’amministrazione pubblica). Peraltro il Trattato di Lisbona, ela Cartadei diritti fondamentali in particolare, fissa dei paletti ben chiari che debbono guidare un’eventuale riforma attraverso, per esempio, una definizione di diritti all’eguaglianza e alla solidarietà. Le regole della Carta hanno anche un altro merito: mettono l’accento su diritti che, ad oggi, non sono veramente salvaguardati (che dire degli immigrati, dei rom, appunto?) o aprono fronti nuovi, quale quello del diritto alla non mercificazione del proprio corpo biologico.

“Economia sociale di mercatoâ€, “flessicurezzaâ€, “inclusione attiva†sono alcune delle parole-chiave maggiormente usate dalle istituzioni dell’UE negli ultimi anni a proposito della modernizzazione del modello sociale europeo. Attengono tutte a una maggior responsabilizzazione degli individui e al ridimensionamento del cosiddetto Stato assistenziale, ma non contengono anche il rischio di “darwinismo sociale†soprattutto in un momento di scarsità di risorse?
Le tre espressioni usate non implicano, di per sé, necessariamente un darwinismo sociale. Esse sono usate però in modo ambiguo. Si prenda l’economia sociale di mercato.
Effettivamente la frase fa pensare a un ulteriore riaggiustamento fra economico e sociale, ma è stata anche accolta con entusiasmo da molti sostenitori di uno Stato solidale, perché confermerebbe proprio il mantenimento di un’economia fortemente condizionata dai principi di solidarietà. La stessa flexicurity può essere un elemento di efficacia della solidarietà in un quadro di efficienza delle strutture pubbliche volte a favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Inoltre dovrebbero cadere pregiudiziali ormai storiche relative, per esempio, all’età dei lavoratori da rioccupare. Infine il contesto dovrebbe essere quello dell’espansione, o almeno non dovrebbe esserci una situazione di crisi occupazionale com’è attualmente in numerosi Paesi. Non si tratta di “parole magicheâ€, ma di formule che esprimono concetti che vengono agevolmente “stirati†da una parte o dall’altra. Il pericolo, da un punto di vista generale è quello che le suddette parole magiche tendano a rimpiazzare il concetto e i contenuti del modello sociale, al fine, certamente, di ridimensionare lo Stato sociale e, certamente, di lasciare un po’ più soli i cittadini o in genere le persone in difficoltà. Sarebbe un peccato anche per altre ragioni. In sostanza perderemmo un patrimonio costruito in Europa pazientemente, e talora dolorosamente, che rappresenta, anche in un ambiente internazionale assai complesso, la nostra carta d’identità.

Il CESE ha chiesto alla Commissione Europea di attuare un nuovo programma d’azione sociale per garantire che ai diritti sociali fondamentali sia attribuita la stessa importanza riconosciuta alle regole di concorrenza e alle libertà economiche. Può essere questa la via per conciliare, in un contesto di crisi economico-sociale, l’enunciazione teorica dei diritti con la loro effettiva esigibilità?
Certamente questa strada, recepita nel Trattato di Lisbona, può favorire una conciliazione fra regole di concorrenza, libertà economiche e diritti. Resta il fatto che il Trattato, come gli orientamenti espressi dal CESE e in parte accolti dalle altre Istituzioni, costituiscono un quadro di riferimento, rispetto al quale le parti sociali e politiche debbono svolgere un’azione incisiva. Questa è una necessità, altrimenti trionferanno le forze che desiderano affossare lo Stato sociale e limitare i diritti dei lavoratori e di chi è povero o discriminato. La stessa strategia della Commissione Europa 2020 che propugna un’Europa in sviluppo e sempre più verde può giocare un ruolo o l’altro a seconda dell’azione delle forze sociali. Lasciata in mano al “mercato†anche questa diventa una strategia tutta economica e, penso, francamente inutile perché incapace di suscitare una particolare attenzione da parte dei cittadini.
In qualche modo, se è vero che la responsabilità politica incombe alle istituzioni, le organizzazioni della società civile non sono esenti da una certa obbligazione di agire su questo terreno di lotta.

Quali sono le principali responsabilità che l’UE deve assumere per evitare – ai vari livelli europeo, nazionale e locale – che le ricadute della crisi colpiscano soprattutto i gruppi sociali più deboli e vulnerabili, come invece sta accadendo?
Per prima cosa, bisognerebbe che gli Stati e le Istituzioni  agissero, almeno in buona parte, al livello europeo: prestiti obbligazionari, imposte sulle transazioni finanziarie, per esempio, non sono decisioni che riguardino il livello nazionale, così come non lo è la decisione di rafforzare eventuali aiuti di Stato. Inoltre, bisognerebbe che l’UE sviluppasse una specifica politica verso i gruppi sociali più vulnerabili, approfittando delle diverse esperienze e distribuendo adeguatamente gli investimenti specifici. L’UE in parte lo fa, ma troppo spesso la sua azione ha valore solo esemplificativo perché molte volte certi Stati bloccano ulteriori sviluppi e approfondimenti, convinti che questi attentino alla loro sovranità (che in questi settori non riescono certo a esercitare efficacemente!). Infine sarebbe necessario riaprire una campagna pubblica sulla solidarietà e sull’inclusione, mentre alcuni governi, in tempi recenti, sembrano voler negare spazio a tale dibattito e agire in modo decisamente opposto a quello che la solidarietà  richiederebbe.

Sulla base dell’esperienza del CESE, qual è l’importanza del lavoro di rete di soggetti a livello europeo? Quanto le varie reti europee riescono a creare sintesi e sinergie, quanto possono incidere sulle politiche e quanto contribuire a un’efficace lotta all’esclusione sociale?
L’azione delle varie componenti della società civile europea è, come si è visto in diverse occasioni, un elemento assolutamente indispensabile, se si vuole dare slancio a un’Europa più sociale e anche più efficace. Da un lato, al livello istituzionale, il CESE ha organizzato una forte cooperazione con i Comitati nazionali corrispondenti. Inoltre ha cercato, in molti casi, come per esempio con la citata iniziativa di Firenze, di mettere in contatto gli operatori proprio della società civile per favorire una loro partecipazione coordinata e dunque più efficace. D’altra parte, il famoso articolo 11 del Trattato di Lisbona apre propriamente le porte dell’UE alla società civile, sia in sede di consultazione sia in sede di proposta. Alcune storie di successo mostrano che la società civile, se ben organizzata, può incidere sulle decisioni europee. A questo proposito, ricorderete tutti l’influenza della protesta e della proposta della società civile al momento dell’approvazione della direttiva europea sui servizi, radicalmente cambiata, appunto, grazie all’azione della società civile. È bene, tuttavia, riflettere ancora su una questione. Il Trattato apre grandi spazi d’azione per la società civile, ben più evidenti che in passato, ma non realizza di per sé un’azione della società civile e neanche definisce con precisione pratiche, regole, obblighi e diritti in questa materia. È certo che, senza un’azione specifica, eventualmente su alcune questioni “faro†le regole del Trattato resteranno uno splendido esempio di processo democratico incompiuto.

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