Vivere insieme per superare la diffidenza

scritto da Redazione il 4 May 2011 in 4 - Accoglienza e diffidenza and Opinioni e commenti con commenta

Non è con la teoria che si superano i pregiudizi e le diffidenze che ci portano a non accogliere l’altro, soprattutto se straniero, ma solo attraverso esperienze vissute che danno a tutti risultati inattesi. È quanto emerge dall’esperienza di don Fredo Olivero, direttore dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti di Torino, da molti anni attivo nella realizzazione di iniziative che favoriscono l’incontro tra culture diverse e impegnato perché ai migranti che arrivano in città siano riconosciuti i diritti essenziali connessi alla cittadinanza: la residenza e l’assistenza.
Come superare i pregiudizi nei confronti di chi è diverso da noi, come fare in modo che dall’incontro di molte diversità nascano esperienze arricchenti per tutti, come riconoscere nell’altro una diversità da accogliere su un piano di parità e di reciproco aiuto nella costruzione di percorsi di cittadinanza e di fraternità: su questi interrogativi abbiamo raccolto le riflessioni di don Fredo, secondo il quale è importante non semplificare un fenomeno di per sé complesso. Anche l’esempio dell’esperienza di un coro multietnico è significativa: non ci sono solo gli italiani autoctoni e gli stranieri immigrati, ci sono invece italiani, marocchini, cinesi, bengalesi e anche la convivenza tra tutti questi gruppi è spesso segnata da pregiudizi e diffidenze che, ancora una volta, solo lo stare insieme fa superare.

Come vede il pregiudizio dal suo punto di osservazione?
Il pregiudizio è un modo di giudicare prima di conoscere. Prima di conoscere l’altro do un giudizio su di lui, di solito negativo, e lo rendo meno valido, non lo considero più un interlocutore alla pari.
Superare il pregiudizio significa mettersi sullo stesso piano e vedere nella persona che aiuti una persona pari a te, con gli stessi diritti, e con qualità diverse dalle tue ma che è capace di fare delle cose che hanno lo stesso valore di quelle che sai fare tu.

Le sue riflessioni portano a leggere il pregiudizio come difficoltà di rapportarsi con ciò che è diverso. Ci sono delle categorie di diversità su cui abbiamo visto che gli operatori fanno particolarmente fatica: lo straniero e la persona che ha perso un po’ il senso dell’orientamento e vive disturbi mentali. Questo dato percettivo corrisponde a quello che lei vede?
Sì. Se io ho davanti uno che in qualche modo è simile a me sono meno spiazzato. Se io parlo la stessa lingua, ho le stesse categorie culturali e ho più o meno gli stessi problemi non sono molto spiazzato, ma quando io mi trovo davanti uno che ha categorie culturali diverse dalle mie, che parla un’altra lingua, che ha un colore della pelle diverso vengo chiaramente spiazzato. Se poi a questo si aggiunge il fatto che la persona nello sradicarsi ha perso l’orientamento, cioè ha aggiunto alla diversità il disagio mentale, allora la situazione si fa più pesante.

Passando dal dato percettivo a quello esperienziale, quali sono i “dispositivi” che secondo lei hanno funzionato meglio nel fronteggiare questo spiazzamento dettato dalla diversità?
Noi da molti anni facciamo incontri con giovani di trenta, quaranta nazionalità diverse. Per molto tempo siamo stati convinti che alcune nazionalità fossero inavvicinabili, parlo per esempio della comunità cinese, ma nel momento in cui siamo riusciti ad avere una mediazione che loro hanno accettato allora i risultati sono stati quattro vote superiori alle attese: al laboratorio di lingua cinese che avevamo preparato per venti bambini ci siamo trovati davanti ottanta persone, non solo bambini ma anche adulti che volevano fare lo stesso percorso per imparare a scrivere il cinese.
Abbiamo poi l’esperienza dei campi di lavoro sull’interreligiosità: campi residenziali di una settimana dedicati a un tema che varia a seconda dell’età dei partecipanti. Una volta abbiamo fatto uno stage di danze e ci siamo trovati con cinquanta persone di quaranta nazionalità diverse. Quelli sono stati i campi più ricchi: i partecipanti hanno cominciato a fare anche teatro e musica insieme. È stata una settimana incredibile. Queste esperienze ci hanno insegnato che i  pregiudizi non si superano nelle teorie ma nella convivenza, facendo insieme esperienze interreligiose, sociali, culturali. Alla fine tutti coloro che partecipano a queste esperienze fanno un grande percorso e ottengono dei grandi risultati. In quelle situazioni se io ho uno che non dialoga con me devo trovare un modo per dialogare, è come buttarsi nell’acqua e poi provare a uscirne insieme. Questo è il modello.
L’ultima esperienza che stiamo affrontando è quella di oggi con i tunisini o i libici, che sono giovani che cercano la libertà dopo quarant’anni di non libertà. Se teniamo da parte queste persone come assistiti si creano un sacco di problemi ma se li inseriamo nelle nostre comunità e loro si sentono accettati diventano una risorsa. Ad esempio, in questa ultima esperienza queste persone il lunedì sono entrate al Centro di accoglienza e la domenica facevano loro il cous cous per i volontari che li avevano aiutati. Già dal secondo giorno non erano più assistiti, cominciavano a pulire la casa, a dare una mano per la mensa e la domenica erano tutti a fare festa: c’erano persone che si ritrovavano, persone anziane che non parlavano francese o arabo. È stato un giorno di festa per la comunità e non lo avevamo previsto.
Stessa cosa con i rifugiati. Se li incontriamo e diciamo loro che bisogna mettere insieme le risorse per costruire un contesto di accoglienza anche loro diventano risorsa. In due anni 200 persone hanno accettato questo cammino: alcuni sono malati psichici, altri sono torturati, altre sono donne violentate o bambini nati da queste violenze… ma queste persone sono in venticinque comuni del Piemonte, seguite da volontari che hanno imparato sulla loro pelle ad ascoltarli e ora si propongono per ospitare altra gente.

Quali sono secondo lei gli ostacoli per la realizzazione di queste esperienze e quali gli elementi che permettono loro di essere efficaci?
Tra gli ostacoli citerei la paura di non essere capace ad affrontare la situazione, poi il linguaggio (cioè il fatto di trovare un modo per comunicare) e il non riuscire a mettersi in gioco del tutto. Perché le cose funzionino direi che bisogna non limitare a due soltanto il numero delle “categorie” che condividono la stessa esperienza e bisogna darsi del tempo: durante l’anno il laboratorio è il migliore strumento e d’estate i campi di una settimana permettono di convivere, magari un po’ isolati da tutto il contesto, e di entrare in sintonia creando importanti sinergie.

Prima accennava alla difficoltà rappresentata dai pregiudizi che esistono tra comunità e culture diverse. Anche su questo piano, dunque, ci sono diffidenze di cui spesso ci dimentichiamo…
Di esempi ce ne sarebbero tanti: un cinese guarda il nigeriano con superiorità, il nigeriano guarda il marocchino con superiorità perché dice «non è neanche un africano», considerandolo marginale rispetto alla propria esperienza. Anche su questo vorrei citare una piccola esperienza che conferma un po’ le cose che dicevo prima. Si tratta di un coro multietnico: noi non siamo riusciti a riunirlo per tre anni, adesso sono loro, i componenti del coro, che ci chiedono di trovarsi di più perché hanno capito che sul piano musicale le conoscenze che ci sono, così diverse, possono far nascere dieci cori.
Questo conferma che le grandi difficoltà si superano solo se si è in grado di tenere insieme cose molto diverse per anni, perché se non le tieni insieme non maturano. Quando la maggioranza capisce che lo stare insieme è una ricchezza, allora le cose cambiano e la spinta a stare insieme aumenta. Ci sono addirittura persone che lasciano un coro etnico per andare in uno multietnico.

 

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