Ripartire dalla vera sussidiarietà

scritto da Roberto D'avanzo il 7 October 2012 in 8 - Ripartire... and Opinioni e commenti con commenta

Quando ho iniziato il mio incarico da direttore della Caritas Ambrosiana, sette anni fa, mi sembrava di capire che i nostri mondi, e il volontariato in generale, in qualche modo intercettavano le situazioni di bisogno e di povertà e, senza la pretesa di rispondere a tutte le esigenze, dovevano essere in grado anche di indirizzare. Sette anni dopo, i miei collaboratori e operatori mi dicono che invece il meccanismo è diventato un po’ a senso unico ed è l’ente pubblico che chiama, chiedendo al volontariato di occuparsi dei problemi e delle necessità primarie delle persone in difficoltà. Quindi è ormai evidente che le “ferite” dello Stato sociale toccano le Caritas e spesso tocca alle Caritas cercare di curarle, perché l’ente pubblico non è in grado o non ha le risorse per farlo.
Dietro alla domanda sul perché ce ne dobbiamo occupare noi si pone una questione di fondo, cioè qual è l’idea di Welfare, quale il meccanismo di protezione e prevenzione del disagio, il sistema che verosimilmente riesce a garantire meglio le persone in maggior difficoltà perché capace di mettere in gioco le risorse e le energie, che non possono essere solo quelle dell’ente pubblico ma neanche solo quelle del privato e delle organizzazioni. L’alchimia sta nel riuscire a mettere insieme queste energie e queste risorse attraverso un modello che sia il più intelligente possibile.
Non potremo mai accontentarci di essere dei bravi “distributori di pacchi viveri”. Nel momento in cui compiamo anche il gesto più semplice di volontariato, mettendoci tutto l’impegno possibile, siamo costretti a chiederci quale potrebbe essere il meccanismo per cui queste persone domani non dovranno ritrovarsi a chiederci aiuto. Qual è il meccanismo che permetterebbe in qualche modo alle persone più fragili di stare in piedi con le loro gambe? Essere operatori Caritas significa rimboccarsi le maniche ma sempre provocati da una riflessione, da un pensiero: questa interdipendenza tra azione e pensiero ci fa crescere, ci rende persone più ricche, sensibili e attente anche a quelle che sono le dinamiche che portano le persone a rivolgersi a noi.

Intercettare i problemi e proporre soluzioni
In occasione della celebrazione dei 40 anni della Caritas, il papa ci ha detto che «le Caritas devono essere come sentinelle capaci di accorgersi e di far accorgere, di anticipare e di prevenire, di sostenere e di proporre vie di soluzione nel solco della dottrina sociale della Chiesa»: questa idea della Caritas come sentinella dice appunto la non presunzione di dover risolvere tutte le situazioni, ma invece di tenere gli occhi aperti e le orecchie spalancate per svolgere la nostra funzione animativa nelle comunità. Poi il papa ha aggiunto: «L’umile e concreto servizio chela Chiesaoffre non vuole sostituire né tantomeno assopire la coscienza collettiva e civile, le si affianca con spirito di sincera collaborazione nella dovuta autonomia e nella piena coscienza della sussidiarietà »: ciò significa che non bisogna assolutamente pensare di sostituirsi all’ente pubblico o far passare l’idea che tutti devono stare tranquilli perché tanto ci sono i volontari della Caritas. Noi stiamo sui problemi, ma come pungolo per il resto della comunità e della società senza alcuna intenzione di sostituire o assopire la coscienza civile collettiva.
A proposito di una sbagliata idea di sussidiarietà mi viene in mente un episodio del Libro degli apostoli (cap. VII), in cui si dice che quando gli apostoli dovettero affrontare il problema dei poveri della comunità cristiana che si moltiplicava velocemente non andarono dal “sindaco” di Gerusalemme ma invece investirono dell’incarico sette persone illuminate di sapienza: cioè c’è un bisogno cui si deve dare risposta,la Chiesa si rimbocca le maniche e cerca di trovare una soluzione, non si lava la coscienza dicendo “non mi compete, ci pensi lo Stato”, individua invece delle persone con capacità cui affida un ruolo anche sociale. Il risultato è che una Chiesa nata per annunciare la parola di Gesù a un certo punto investe anche nell’ambito sociale e così facendo non solo non perde la sua specifica missione ma addirittura aumenta in modo significativo il numero dei credenti.La Chiesa, quindi, non può accontentarsi dei propri incensi, la sua missione non può confinarsi in ambito liturgistico, deve invece affrontare la sfida sociale. Ma questo appena citato è un esempio di sussidiarietà fallimentare, perché l’azione della Chiesa avviene in sostituzione dell’allora ente pubblico, il quale non sembra trarre spunto dall’intervento della Chiesa considerandolo una buona pratica da cui partire per attuare interventi nella prospettiva di offrire in maniera universale un tipo di attenzione e assistenza.
Perché dunque le ferite dello Stato sociale toccano le Caritas? Perché abbiamo un compito, un mandato: siamo chiamati a sperimentare dei modelli di intervento, pur limitati, circoscritti, affinché questi modelli siano assunti dai responsabili pubblici della lotta alla povertà e fatti esplodere in maniera universale, cioè al servizio di tutti coloro che ne hanno bisogno.

Dignità della persona e bene comune
Ma quali sono, secondo la dottrina sociale della Chiesa, gli elementi necessari per immaginare un sistema capace di proteggere le categorie in maggior difficoltà?
Il primo pilastro, il primo punto di riferimento è la dignità della persona umana. Il secondo è quello del “bene comune”, cioè l’insieme delle condizioni sociali che consentono lo sviluppo della persona: non è la somma del bene di ciascuno, non è il bene privato né il bene pubblico, è quella sorta di humus grazie al quale riusciamo a dare il meglio di noi stessi. Implica la cultura di appartenere a qualcosa di più grande, cioè il principio che è l’esatto opposto di quell’individualismo sfrenato che ci fa illudere di poter stare in piedi da soli e che cancella ogni idea di bene comune. Questo senso di partecipazione per la costruzione di qualcosa che è di tutti costituisce l’orizzonte in cui il bene comune può svilupparsi.
Questi due pilastri si appoggiano poi su altri due pilastri/strumenti che sono la sussidiarietà e la solidarietà e che devono stare insieme, perché il primo attiene alla capacità del singolo attore, al suo protagonismo, mentre il secondo descrive la capacità di stare insieme.
Va sottolineato che negli ultimi anni il concetto di sussidiarietà è stato saccheggiato, abusato, secondo la logica dello “scarica barile”: da parte pubblica l’approccio è stato “fate voi che ci costa di meno”, mentre da parte del privato sociale si è avuto un atteggiamento del tipo “dateci i soldi che ci pensiamo noi”. Due posizioni lontane dal vero significato di sussidiarietà, la quale si è scontrata con due grandi scogli, due grandi tentazioni delle società moderne.
Negli ultimi decenni si è passati infatti da uno statalismo accentratore, che ha avuto come risultato la deresponsabilizzazione dei soggetti (individuali e collettivi) e l’assistenzialismo privo di ogni funzione animativa/educativa, a un approccio neoliberista che interpreta la sussidiarietà come dismissione di tutta una serie di servizi e la frantumazione di uno Stato sociale che si accontenta di erogare dei titoli sociali (voucher), lasciando il cittadino bisognoso in balia di un mercato sociale in cui difficilmente riesce a orientarsi.
Ma non basta dare la libertà di scelta, bisogna garantire anche la libertà di poter scegliere. La logica neoliberista ha compromesso anche ogni slancio di programmazione, perché la creazione e l’erogazione dei servizi è stata delegata al mercato e alle iniziative private, che naturalmente scelgono le più redditizie, mentre l’ente pubblico non ha svolto il suo ruolo necessario di orientamento e controllo.

Anticipare, sperimentare, consegnare
Sussidiarietà significa invece quel sistema per cui i soggetti, le persone, si impegnano per risolvere i problemi e il livello superiore interviene quando i soggetti, i singoli, non ce la fanno. Questo è il meccanismo “bello” della sussidiarietà, così come quando l’ente pubblico esce dai suoi uffici e va a vedere nei territori come il privato, il volontariato si sono organizzati per affrontare dei problemi e queste modalità possano diventare un modello. Il pubblico deve cioè intervenire per completare e diffondere i benefici derivanti dall’azione del privato sociale, il quale può giocare d’anticipo per le sue caratteristiche di agilità e flessibilità, la sua capacità di adattamento alle situazioni nuove e la sua volontà di affrontare i problemi.
Attualmente ci troviamo nella quarta triennalità di quella programmazione territoriale denominata “piani di zona” (Legge n. 328/2000), nata con l’intento di dare agli enti locali un ruolo primario negli interventi di carattere sociale in stabile relazione e collaborazione con la galassia di soggetti che operano nel settore, così da pianificare le modalità di intervento. Una grande intuizione che però si è rivelata una promessa non mantenuta, disattesa. Alla luce di ciò va riaffermata un’urgenza di carattere culturale, secondo cui l’ente pubblico deve imparare a mettersi in ascolto della cittadinanza e questa deve imparare a sentirsi parte del tutto in un’ottica di cittadinanza attiva, in modo competente e costruttivo nelle sedi istituzionali dove ci si interroga sui bisogni delle persone, si tutelano i diritti di cittadinanza e si programmano servizi e interventi per contrastare disagio e povertà.
Quindi il volontariato deve occuparsi delle ferite dello Stato sociale perché siamo convinti di dover svolgere questa funzione di “anticipatori” che “sperimentano per consegnare”. E dobbiamo farlo seguendo due linee: una funzione conoscitiva, di osservazione ed esplorazione, secondo la logica dello “scouting sociale”, di antenne sul territorio che recepiscono i bisogni e stimolano le istituzioni a intervenire; ma anche una funzione di interlocuzione diretta con le persone e i loro bisogni.
È opportuno allora uno scatto di orgoglio da parte nostra rispetto all’azione che svolgiamo, in modo da uscire da una certa timidezza nei confronti dei decisori pubblici convinti della necessità di estendere a tutti le nostre pur limitate capacità di intervento.

(Testo tratto da intervento a Convegno regionale Caritas Piemonte-Valle d’Aosta 2012, Colle don Bosco 19 maggio)

* direttore Caritas Ambrosiana

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