Perchè sia ancora Stato sociale

scritto da Tiziana Ciampolini il 17 March 2012 in 7 - E' stato sociale lo sarà ancora? and Approfondimenti con commenta

Stiamo abbassando la saracinesca, spegnendo le luci della ribalta sullo Stato sociale.
In realtà è impossibile farlo, perché ci sono poche cose certe nella vita come il nostro “stato di esseri sociali”: da soli non possiamo vivere, crescere, essere felici, da soli non possiamo fare nulla. Quando diciamo che non ci sono più risorse per lo Stato sociale, il cosiddetto Welfare, mettiamo in discussione un cardine della nostra esistenza: il prenderci cura gli uni degli altri. A questo rinunciamo se smantelliamo la protezione sociale.
Concordiamo con la necessità di una riforma del Welfare, che in Italia può e deve usare meglio le risorse. Quando il comparto della spesa sociale, destinata soprattutto agli Enti Locali, diventa sempre più fragile, soprattutto a causa della frammentazione e della mancanza di una regia complessiva a cui si aggiunge una riduzione dei fondi, diventa difficile non accigliarsi e poi diventare cupi, sentire la fatica, percepire il disamore e il disinvestimento per arrivare al senso di perdita e di straniamento. È questo che si legge sui volti e sui corpi degli operatori sociali, dei volontari, di quella società civile che ha speso e spende passioni, talenti ed energie per la costruzione e il mantenimento del nostro “stato sociale”.
Nei convegni, nei seminari, negli incontri pubblici a cui prendiamo parte ci stiamo dicendo solo che “non ci sono più risorse” e che, stringi stringi, dobbiamo rinunciare a diritti, a servizi che abbiamo costruito con recente fatica.
Cosa c’è in ballo dentro l’assottigliamento dello Stato sociale, dentro la sua sottrazione, dentro la sua contrazione e dentro le nostre contratture di esseri sociali? Ci siamo noi e il nostro senso dell’esistere. Ecco perché vale la pena di pensarci un attimo su, di uscire dalle semplificazioni, dalla fretta, dall’incuria, dalla trascuratezza che stiamo riservando allo Stato sociale: tagliare via come fanno i chirurghi, ma stiamo mica scherzando? Ci sono altri rimedi, altri modi di prendersi cura, altri approcci al problema. La crisi che ci attraversa non sgretola solo le certezze costruite dal dopoguerra ad oggi, ma ci pone di fronte ad altre evidenze: siamo sicuramente fragili e sicuramente legati, interconnessi. È a questo che occorre pensare, è questa la sfida che ci troviamo ad affrontare oltre a quella di tornare a fare bene i conti, spostare voci di spesa, trovare sofisticate tecnologie per uscire da questo momentaccio. Ecco perché varrebbe la pena di investire nella capacità di far fruttare l’interconnessione, di imparare ad usarla, di “profittare” delle opportunità offerte dai reticolati, dai nuovi scambi.
Varrebbe la pena di costruire eccedenza, un surplus di buono, vero, giusto che sblocchi il regime statico dello scambio delle equivalenze, della funzionalità e della strumentalità, per aumentare la vitalità dei nostri sistemi. Impariamo dai Paesi che hanno tagliato fondi al Welfare tradizionale ma che hanno aumentato risorse mettendo in campo fondi per la cultura, per la formazione, per dare vita a nuovi modi di pensare e di agire nella società e nell’economia.
Dobbiamo imparare e sviluppare reti, ce lo diciamo con quasi noiosa insistenza ma anche in questo caso, questa azione, oggi, non assume lo stesso significato che le abbiamo attribuito negli ultimi decenni. Per usare la rete, oggi, occorre prendere in prestito nuove immagini. In un interessante saggio, La leggerezza del Ferro, Luigino Bruni e Alessandra Smerilli, economisti, propongono di immaginare “small world networks” le cui architetture sono dominate da pochi nodi (come Google, Yahoo, Amazon), ma altamente connessi.
Il funzionamento di queste reti è basato sulla presenza di hub, che sono semplicemente nodi significativi: basti pensare al funzionamento delle reti aeroportuali che sono interconnesse proprio attraverso gli hub (l’aeroporto di Francoforte e di Londra, sono due hub, snodi per ulteriori interconnessioni). Le reti che funzionano in tal modo sono le più resistenti perché simili a quelle che spontaneamente si formano in natura, che si costituiscono in contesti dotati di autenticità e congruenza. Organizzare reti small world significa dare vita a più centri di potere e di coordinamento, a più connettori, rappresentati da persone e organizzazioni capaci, abili, competenti a stringere legami seri, solidi, generativi, quei punti a cui ci si rivolge per risolvere un problema (per rendere l’idea, quelli che vengono più frequentemente linkati). Da questo punto di vista la rete diventa non un indistinto e indifferenziato mettersi insieme perché è giusto o necessario, ma una scelta improntata alla fecondità di quel relazionarsi verso un obiettivo che è il dare vita a beni sociali che sono beni comuni. Questo significa “fare profitto”, creare eccedenza a partire dall’ineluttabile interconnessione. Valicare il sé, andare oltre al proprio spazio di azione pensando in
modo complesso.
Oggi non si tratta quindi solo di fare problem solving, raffinando le nostre tecnologie, si tratta prima di tutto di fare problem setting, cioè di mettere a fuoco i problemi nella loro essenza, comprenderli, capirli, maneggiarli, scomporli: usare la tecniche (che è ciò che ci distingue come uomini dagli animali) che abbraccia la parola, il pensiero e la tecnica, utilizzando questi strumenti contemporaneamente.
Gli articoli di questo numero ci mostrano una situazione a dir poco imbarazzante per un Paese occidentale che ritiene di essere ai primi posti nel mondo per civiltà e modernità: 800.000 persone hanno perso il lavoro tra cui precari e sottoqualifcati, migranti e donne; il potere dei redditi è tornato indietro al 2001; un giovane su tre è disoccupato; i tagli allo Stato sociale priveranno dei servizi adeguati milioni di italiani.
Non possiamo farci prendere dallo scoramento e neppure aspettare che ci sia qualche cambiamento macroscopico che trasformi questa crisi in sicura occasione di rigenerazione. Intanto possiamo, come sostiene il Rapporto della campagna “Sbilanciamoci!”, fare in modo che del Welfare non si abbia un’idea compassionevole e residuale, da relegare alla bontà, disponibilità e benevolenza delle persone. Occorre andare oltre, adesso, a partire dal micro, a partire dalle nostre responsabilità quotidiane.
Concludo con una storia che sintetizza bene l’idea della possibilità mancata di fare rete e della necessità di uscire dalle buone, compassionevoli, residuali concessioni che riserviamo alle persone per superare la riduzione di risorse e la mancanza di governance dei servizi. È la storia di Luisa, che ci è stata raccontata durante un lavoro di ricerca.
Luisa ha due genitori che stanno perdendo l’autonomia, lei non ce la fa ad assolvere i compiti di accompagnamento: è sola, non ha nessuno che la può aiutare, vuole capire, cerca informazioni, cerca servizi, cerca qualcuno disposto a darle una mano. Luisa racconta: «Ho contattato l’associazione perché sapevo che svolgeva un servizio di accompagnamento. Ho spiegato il problema e la persona al di là del telefono non mi ha fatto finire di parlare, dicendomi che aveva già capito tutto e che avrei dovuto chiamare le assistenti sociali. Ho fatto presente che avevo appena chiamato i Servizi sociali, i quali mi avevano detto di rivolgermi direttamente all’associazione con la quale stavo parlando perché il servizio in questione non era più in convenzione. La persona al di là del telefono mi ha risposto che non sapeva cosa dirmi».
Luisa racconta, poi, di avere chiamato un’altra organizzazione che svolgeva analogo servizio e di essersi sentita chiedere: «Come mai signora lei è così informata, sta per caso cercando lavoro?». Ovviamente Luisa non stava cercando lavoro, solo una risposta a una sua necessità e, prima di contattare interlocutori, si era informata sulle concrete possibilità di vedere soddisfatto il suo bisogno.
Per sua fortuna Luisa è «simpatica», come le dice il suo secondo interlocutore telefonico, che quindi aggiunge: «Le do un altro numero di telefono a cui chiamare, ma non dica che gliel’ho dato io. Lì potrebbero aiutarla e poi, detto tra noi, se non le rispondono neanche lì, vada
in Parrocchia, lì qualcuno l’ascolterà».
Si potrebbero fare innumerevoli letture di questa storia: sulla disuguaglianza tra chi possiede informazioni e chi non le possiede, sulla frammentazione dei servizi, sulla deferenza tra esigibilità dei diritti e benevolenza, sul rapporto tra servizi pubblici e privati, tra servizi professionali e quelli di volontariato e molto altro ancora. Ma non ne facciamo nessuna per il momento, ci basta esprimere
un desiderio: vorremmo semplicemente che storie come questa se ne potessero sentire sempre meno perché le nostre reti, il nostro essere e fare prossimità ogni giorno, possano essere davvero sociali, sensati, fecondi.

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