Italia: Paese bloccato e poco consapevole

scritto da Redazione il 4 October 2011 in 5 - Stato di insicurezza sociale and Approfondimenti con commenta

La scarsa consapevolezza sembra essere il principale problema dell’Italia in un contesto come quello attuale di crisi generalizzata: politica, economica, finanziaria, produttiva, sociale e culturale. Se infatti più o meno tutti percepiscono le difficoltà del momento e si diffonde uno stato di generale insicurezza, pochi ne comprendono le cause e le dinamiche reali mentre, quel che è ancora più grave, manca totalmente la condivisione di un progetto per superarle. Confusione, sfiducia, contrapposizioni corporative, inadeguatezza della classe dirigente e progressiva perdita di coesione sociale stanno paralizzando un Paese che, colpevolmente e pericolosamente, non riesce ad avere una visione, una prospettiva comune invece sempre più necessaria.
Questo preoccupante scenario emerge da tutti i più recenti studi sull’attuale situazione italiana, e risulta piuttosto difficile comprendere se sono le ricadute dei problemi economico-finanziari ad aver evidenziato e amplificato la crisi del sistema-Paese o se invece è stata quest’ultima ad ingigantire gli effetti di una crisi economico-finanziaria certo grave, ma che colpisce più o meno allo tesso modo tutti i Paesi a capitalismo avanzato. La questione è però centrale per capire come il Paese può risollevarsi, quali politiche, quali iniziative e quali interventi possono indicare la necessaria via d’uscita.

Inadeguatezza della classe dirigente
Secondo il Rapporto Italia 2011 pubblicato dall’Eurispes, «l’Italia sta vivendo, insieme, una grave crisi politica istituzionale, economica e sociale. Tre percorsi di crisi che si intrecciano, si alimentano e si avviluppano l’uno con l’altro fino a formare un tutt’uno solido, resistente, refrattario ad ogni tentativo di districarlo, di venirne a capo». Le responsabilità sono politiche ma non solo, come spiega il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara: «Abbiamo sempre rifiutato di attribuire alla sola classe politica la responsabilità di tutti i nostri mali perché questa rappresenta solo una parte della classe dirigente. Noi preferiamo riferirci ad una “classe dirigente generale” della quale fanno parte con ruoli e responsabilità tutti coloro che sono in grado, per le funzioni che esercitano, per il senso che possono affidare al loro impegno, per l’esempio che possono trasferire alla società, di esercitare un ruolo, anche pedagogico, di guida e di orientamento. Questa “classe dirigente generale” deve ri-costituirsi in una vera e propria grande “agenzia di senso” e ri-prendere in mano il destino e il futuro dell’Italia».
A differenza di quanto accade in altri Paesi, infatti, la classe dirigente italiana «non è né coesa né solidale» osserva lo studio, «possiede una grande consapevolezza di sé e nessuna consapevolezza dei problemi generali. Non è mai riuscita a costituirsi in élite responsabile». Così, sostiene Fara, «si stenta ad ammettere che il modello di sviluppo realizzato in Italia nel dopoguerra, dopo aver prodotto risultati straordinari, si è semplicemente esaurito perché si sono modificate tutte le ragioni dello scambio sui mercati internazionali. Ora, dal momento che questo vecchio sistema non regge più, partendo da una indispensabile operazione verità, bisogna pensare ad una nuova prospettiva».
La definizione di una “nuova prospettiva” implicherebbe però una consapevolezza che non esiste. In un Paese a crescita zero, con un debito pubblico tra i più elevati al mondo, con scarsa credibilità politica e in balia delle speculazioni finanziarie, l’intervento di governo è orientato unicamente al risanamento dei conti pubblici attraverso il taglio sommario della spesa e maggiori imposizioni fiscali. Misure che da sole, però, non fanno che indebolire ulteriormente una popolazione già caratterizzata da elevati squilibri economico-sociali, mobilità sociale praticamente inesistente, in progressivo invecchiamento e diffuso impoverimento, che sconta l’inadeguatezza di effettivi ammortizzatori sociali e l’inefficienza di molti servizi, soprattutto in alcune aree del Paese.

Servizi pubblici insufficienti: aumentano i costi per le famiglie
La condizione sociale di un Paese economicamente fermo e che si accinge a ridimensionare ulteriormente i livelli di protezione è già oggi preoccupante ma lo diventa ancor più in prospettiva, come evidenzia un recente studio Censis-Unipol sul Welfare in Italia secondo cui i servizi sanitari sono pagati sempre più dai cittadini, i bisogni di assistenza sono affrontati con equilibrismi familiari e il futuro è incerto per le pensioni.
Nel 30,8% dei nuclei familiari si riscontra un bisogno assistenziale. Per la maggior parte si tratta della necessità di accudire i figli, ma per il 6,9% dipende dalla disabilità o non autosufficienza di un membro della famiglia. Ebbene, sottolinea lo studio, «le risposte a questi bisogni provengono soprattutto dall’interno della famiglia stessa» e, nelle famiglie con figli, le madri devono spesso ridurre il lavoro fuori casa: nel 40% dei casi quando il figlio è piccolo (con meno di 6 anni), nel 21,9% dei casi quando il figlio è più grande. Il 7,1% delle madri con bambini piccoli e il 5% di quelle con figli grandi sono poi costrette a lasciare del tutto il lavoro. Anche i bisogni più complessi, legati alla disabilità e alla non autosufficienza, sono affrontati soprattutto da mogli e madri (36,9%) e il problema è destinato ad aumentare sensibilmente dato il progressivo invecchiamento della popolazione. Complessivamente, quasi il 15% delle famiglie esprime il bisogno di servizi di assistenza pubblici (dall’asilo nido all’assistenza domiciliare), ma solo il5,8% ha trovato risposte adeguate nel sistema pubblico. Anche per questo il ricorso a prestazioni sanitarie totalmente private è piuttosto diffuso: nell’ultimo anno solo il 19,4% delle famiglie ne ha potuto fare a meno e ciò è costato mediamente 958 euro a famiglia, per salire a 1418 euro in media per le famiglie che hanno avuto bisogno di cure dentistiche.
Per affrontare le necessità sanitarie nel futuro, rileva lo studio, il 36,7% delle famiglie ritiene che la copertura pubblica sarà sufficiente, la maggioranza (il 54,7%) si affiderà a un modello di «Welfare mix» autogestito, integrando la copertura pubblica con prestazioni private pagate direttamente di tasca propria, mentre l’intenzione di ricorrere a strumenti integrativi a copertura dei bisogni sanitari è espressa solo dal 7,7% delle famiglie.

Risparmi impossibili, soprattutto tra i giovani
L’aumento dei costi per le famiglie avviene all’interno di un contesto di diffuso disagio economico, spesso nascosto dietro a una apparente normalità. «Una casa in affitto, un lavoro modesto, la spesa nei mercati rionali e tanti sacrifici per arrivare a fine mese, è questa la condizione di una rilevante quota di famiglie a elevato rischio di impoverimento. La forza della crisi ha fatto aumentare il numero di famiglie che non riescono a far fronte sia alle spese quotidiane sia agli impegni contratti – per necessità e non per spese voluttuarie – con le società finanziarie o con gli istituti di credito, ricorrendo così ad ulteriori indebitamenti » osserva il Rapporto dell’Eurispes.
La difficoltà ad arrivare alla quarta settimana, e per molti ormai alla terza, è una questione che accomuna milioni di famiglie italiane: un disagio ulteriormente confermato dal 54,7% di quanti confessano che, ad un certo punto del mese, incontrano difficoltà a far quadrare il proprio bilancio familiare (in aumento del 6,3% rispetto al 2010). Anche per questo una famiglia su tre intacca i propri risparmi.
Secondo lo studio Censis-Unipol, poi, sono soprattutto le famiglie giovani che non riescono più a risparmiare, cosa ancor più grave in prospettiva. La quota di famiglie più giovani che spendono tutto il loro reddito mensile (58,4%) è superiore alla media di tutte le famiglie (52,5%), così come avviene tra le famiglie costrette a indebitarsi (il 5% delle giovani contro la media del 3,7%). «Dall’osservazione dell’assetto patrimoniale delle famiglie italiane emerge in modo netto la debolezza dei nuclei più giovani, particolarmente marcata in oltre la metà dei casi» sottolinea lo studio Censis-Unipol, rilevando che l’8% non può contare su nessun genere di patrimonio, e a queste si aggiunge il 42,6% che non ha nessun patrimonio immobiliare (contro il 16,8% medio). Tutto ciò porta ad un’amara ma realistica costatazione: «Nel dibattito pubblico le risorse rappresentate dal risparmio e dai patrimoni delle famiglie vengono frequentemente citate come un elemento di solidità del sistema economico nazionale. Ma questo discorso è destinato a essere sempre meno vero, se i giovani  lavoratori, sulle cui spalle ricade prevalentemente il peso dell’incertezza economica, spesso senza alcun genere di ammortizzatori, non sono nelle condizioni di accantonare risorse per il futuro».

Il problema delle pensioni future
In prospettiva futura, anche la copertura pensionistica è destinata a ridimensionarsi, soprattutto per gli attuali giovani. Secondo lo studio Censis-Unipol, infatti, il 42% dei lavoratori dipendenti che oggi hanno meno di 35 anni andrà in pensione intorno al 2050 con meno di 1000 euro al mese, cioè in molti si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. Previsione che riguarda solo i più «fortunati», cioè i 4 milioni di giovani inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard: ci sono però circa un milione di giovani lavoratori autonomi o con contratti atipici e 2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.
Inoltre, l’Italia è uno dei Paesi più vecchi e longevi al mondo e nel 2030 gli anziani con oltre 64 anni saranno più del 26% della popolazione totale: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. «Il sistema pensionistico dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità» osserva lo studio, secondo cui «se le riforme delle pensioni degli anni Novanta hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine del sistema, oggi preoccupa il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future». Nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell’ultima retribuzione, mentre gli autonomi vedranno ridursi il tasso fino a meno del 40%.
Ma anche su questo non c’è grande consapevolezza: solo il 12% del campione della ricerca è preoccupato per il valore dell’assegno pensionistico futuro, forse anche perché quasi il 70% non sa a quanto corrisponderà rispetto all’ultimo stipendio percepito. Nell’immaginare il portafoglio finanziario futuro della famiglia una volta in pensione, poi, il 93,5% cita la risorsa della pensione pubblica, mentre secondo l’analisi per sostenersi il 35,6% delle famiglie potrà contare esclusivamente sulla pensione pubblica.

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