Conversazione sulla Carità(s)

scritto da Redazione il 4 October 2010 in 2 - Responsabilità Generativa and Opinioni e commenti con commenta

Dopo oltre un anno di lavoro, nel marzo 2010 siamo giunti alla fase finale del corso di formazione realizzato all’interno del progetto “Opera Segno”, che ci vede impegnati nel migliorare la capacità e qualità di risposta del nostro volontariato partendo dal metodo Caritas (ascoltare – osservare – discernere per animare): dotandoci di strumenti di lettura e analisi per ri-conoscere le nuove forme di povertà; applicando metodologie di ascolto per un’attenzione che si prende cura dell’altro con strumenti di orientamento e conoscenza delle risorse presenti; vivendo esperienze di accompagnamento di lungo periodo per “stare a fianco” in modo da riattivare le capacità dell’altro; ricercando risorse parrocchiali e territoriali perché si facciano prossime.

L’impressione di noi volontari, impegnati in diverse parrocchie dei quartieri torinesi di Barriera di Milano e San Salvario, è che la complessità dei casi che si presentano richiede una rete di funzionamento, ma di questa rete non si vedono le trame e la consistenza: una mancanza di organizzazione volta ad armonizzare le risorse presenti sul territorio. Altra difficoltà grande riscontrata è dovuta al coinvolgimento della comunità, operare nella carità soltanto con i mezzi che la parrocchia può mettere a disposizione attraverso le raccolte di offerte, ecc. è una “goccia” rispetto al “mare” che serve.

Per approfondire alcuni aspetti del nostro essere “testimoni” e “presenze di Carità” nelle parrocchie abbiamo incontrato don Giovanni Perini, teologo e direttore della Caritas di Biella. Si è trattato di un dialogo impostato sulle esperienze concrete e sulle visioni reciproche che abbiamo, perché ci sono due modi per affrontare le cose che non funzionano: una è lamentarsi e l’altra è trasformare le cose che non funzionano in progettualità.

Qual è il reale senso della Caritas oggi? Quali sono le sue difficoltà maggiori?
Cercando il capo del filo partirei dal tentativo di contestualizzare il lavoro e le prospettive di Caritas dentro il nostro tempo. Caritas nasce e si inserisce in una situazione che non ha le condizioni sufficienti per accoglierla, quindi viene respinta, lasciata da parte con mille motivazioni. Noi ci troviamo in una condizione di imbuto: abbiamo tanto – metodi, idee, riflessioni – e poi ci troviamo fermi perché il passaggio alla comunità è difficilissimo. Dovete sapere che ciò che precedeva l’istituzione della Caritas erano le Pontificie Opere di Assistenza che sostenevano le opere diocesane, con un approccio di pura assistenza, compensando le difficoltà presenti nella famiglie, portando per esempio i bambini al mare o comprando loro i quaderni per la scuola.
I problemi di oggi sono decine di volte superiori a quelli che c’erano 40-50 anni fa: allora eravamo in un processo inverso, si stava uscendo dalla povertà e quindi probabilmente c’era bisogno solo di fare dei piccoli aggiustamenti, sostegni per coloro che facevano fatica ad entrare nel progresso. Le attuali sono condizioni completamente diverse, allora c’era solo immigrazione interna che creava paure e problemi ma non certamente tanti come quelli che crea l’immigrazione dall’esterno, perché le differenze sono maggiori e più vistose.
L’idea di Paolo VI, nel pensarela Caritas, consisteva nell’immaginare che essa potesse lavorare per una trasformazione innanzitutto dello sguardo con cui leggere la realtà. Il primo compito è dunque questo: fare sì che altri come noi abbiano questo sguardo sulla realtà.
La fatica è proprio quella di trovarci in testa e nel cuore delle idee, delle prospettive, dei sogni ma di non trovare le modalità per far passare queste idee, per realizzare delle ricadute concrete nella vita delle persone e delle comunità.

In cosa consiste questo sguardo?
Provenivamo da un concetto di carità che era tutto fatto di cose, tant’è vero che carità era diventata sinonimo di elemosina. Carità ed elemosina si erano identificate con un trascinamento al basso del concetto di carità.
Risalire la china vuol dire: passare dalle cose alle persone che è la cifra dello stile della Caritas. È un passaggio difficilissimo, perché è più semplice, meno coinvolgente, meno complicato dare le cose. Oggi poi è diventato difficile perché scarseggiano anche queste, se per cose mettiamo dentro anche il denaro.
Oggi la povertà e la riduzione di risorse è per tutti, il che significa che diventerebbe comunque problematico mantenere questo schema, non abbiamo più una grande possibilità di cose da mettere a disposizione.
Allora il passaggio diventa indispensabile: mettere le cose in secondo ordine, riconoscere che a volte non siamo in grado di dare quello che ci chiedono. Mettere invece in primo luogo la persona e la capacità di ascoltare, essere lì per ciascuno di loro facendosi carico di portare insieme le fatiche di una storia.
Per esempio, se c’è una persona a cui vogliamo bene e che ha un problema di salute partecipiamo al suo dolore, sappiamo però che la nostra partecipazione non sta nel risolvere il problema. Così, quando viene da noi una persona con una sofferenza siamo capaci di togliergliela? No, non siamo capaci, possiamo incoraggiare, stare vicini. Ma cosa serve a quella persona? Se nessuno può togliergliela serve che qualcuno la ascolti, entri in quella sofferenza e la porti. Questo è l’accompagnamento: il farsi compagni, essere presenti con attenzione.
È questo passaggio per il quale stiamo lottando: è un’enorme fatica far stare i volontari Caritas sul rapporto e non sulle cose, perché arriviamo da quella mentalità. È una gran fatica far fare il salto di qualità per cui le cose sono solo strumenti per arrivare a una persona e spesso le cose non ci sono.
Noi siamo “pionieri”, non possiamo pensare di camminare su strade asfaltate, quindi non pensiamo che quello di cui noi siamo portatori sia facile da portare e sia facile che venga accolto, perché non è così.

La particolarità di questa “Opera Segno” è la sua immaterialità, perché non stiamo costruendo una mensa o una casa di accoglienza ma stiamo lavorando sulla qualità delle relazioni. La sua immaterialità è però un problema perché non è compresa.
Il lavoro con le persone non è misurabile, quantificabile, è difficile vedere dei risultati, a volte solo di lunga scadenza e quindi al di là delle nostre possibilità. Non dimentichiamoci però che per Caritas, anche quando apre una mensa, lo scopo non è dare da mangiare, ma costruire una relazione con persone che in quel momento non hanno da mangiare. Questo però ce lo scordiamo sempre, le nostre opere perdono identità e significato se confondono il fine con il mezzo.

Troppe sono le persone che hanno bisogno e troppo pochi siamo noi. Come fare perché il concetto di accompagnamento si estenda alla comunità? Come la comunità può ascoltare e accompagnare mettendo a disposizione una rete di relazioni?
Ci troviamo davanti a due aspetti della realtà. Il primo riguarda noi: non possiamo partire con l’idea di arrivare a tutti, c’è l’impossibilità per tempo, mezzi, complessità. Il limite è una delle cose più difficili da sperimentare perché mette in discussione il nostro innato senso di onnipotenza.
Un mio amico ha scritto un saggio sulla Sindrome del Salvatore: cioè l’insieme di atteggiamenti per cui io mi metto di fronte all’altro, pensando, presupponendo, credendo di tirarlo fuori dai suoi problemi.
Quell’idealità, quel desiderio non commisurato al reale che presuppone: «Ti tirerò fuori io; ti cambierò io» diventa alla fine un boomerang che si ritorce contro la persona. Non lo facciamo neppure con le persone più intime perché non c’è nessun marito e nessuna moglie che riesca a rispondere appieno alle attese dell’altro. Se non riusciamo a interiorizzare il senso del limite è molto complicato e faticoso. Affrontare i problemi riconoscendo fin dove possiamo arrivare è il solo punto di partenza che ci è dato. La seconda questione riguarda la nostra povertà: perché dobbiamo pensare che sia un’utopia che le nostre comunità si rendano disponibili a far circolare relazioni? Questo è il solo modo per moltiplicare le risorse. Ma questa affermazione che sembra semplice pare trovare le maggiori difficoltà proprio all’interno delle nostre comunità.

Forse stiamo girando attorno ad un concetto che dovrebbe traghettarci dal “fare carità” all’“essere carità”. Finché facciamo carità siamo legati e limitati dalle risorse materiali, l’essere carità invece ci mette nella condizione che l’unico limite siamo noi stessi, non sono gli altri. Perché essere carità vuol dire entrare in relazione e di conseguenza sono io personalmente e tutte le persone che sono attorno a me, che formano una comunità, a poter essere presenti anche in maniera immateriale.
Abbiamo detto “passare dalle cose alle persone”, abbiamo evidenziato come “lavorare sulle persone”, ora facciamo un ulteriore passo “dall’individuo alla comunità” cioè alla rete, necessità base da voi più volte te riportata.
Quello che Caritas ha buttato in campo è una novità che ci trova impreparati: dal concetto di carità che dipendeva solo da me, che vedeva me come soggetto, ad un concetto il cui soggetto è la comunità.
Talvolta idealizziamo le comunità. Le comunità non esistono, sono termini, parole. Comunità è sempre una parola magica priva di contenuti. Va concretizzata con quella cerchia di persone che conosciamo, che condividono con noi i temi della fede e con le quali possiamo nei modi più informali far passare queste cose. Secondo l’impostazione di Caritas va cambiato il modello con cui noi vediamo queste cose. Lo si dice anche per altro: «Chi è il soggetto della catechesi, chi è il soggetto della celebrazione? È la comunità». Cosa significa pensare ad una comunità come soggetto? Significa lavorare per cambiare i modi con cui funzionano le cose e il primo passo è comunicare ad altri il percorso che siamo chiamati a fare per essere davvero comunità. Non possiamo fare cose nuove con modalità vecchie.
Se voglio rivolgermi alla comunità comincerò da chi conosco della mia comunità, dai miei contatti, dal fare piccoli progetti insieme. Dove c’è qualche piccolo spiraglio per poter entrare, per lanciare un’idea, una possibilità, una proposta per passare da una carità che faccio io ad una carità di rete. Per assurdo oggi sprechiamo risorse umane, risorse economiche e di beni, di tempo; quando tutto il mondo si collega, noi continuiamo a coltivare il nostro orticello.
È questa la mentalità delle nostre comunità. Allora l’idea è: può il mio vicino di orticello entrare nel mio ed io nel suo? Cioè possiamo trovare piccoli sistemi di corrosione di questa impostazione che ci portiamo dietro da secoli? Le nuove povertà portano questioni per le quali si può lavorare solo insieme, componendo e ricomponendo le reti della socialità.

Esistono però varie difficoltà nel creare la rete…
La difficoltà di fare rete è la difficoltà di fare un piccolo programma insieme. Cosa conosce la comunità dei bisogni e dei problemi che esistono? Come facciamo a dirglielo? Questo è un sogno. Però un sogno – da non confondere con un’utopia – è ciò che ci guida. Perché se per ogni cosa ci interroghiamo su come passarla ad altri, allargando il cerchio della consapevolezza e della collaborazione, noi portiamo avanti un’idea che non vedremo realizzata nell’immediato ma che si radicherà. Perché le idee si radicano, dobbiamo credere nella forza delle idee.
Personalmente sono convinto che questo sia il futuro: se dovremo scivolare ulteriormente perché la maggioranza si renda conto di come stanno le cose, scivoleremo. Ben venga però che ci sia una Caritas, che ha previsto, che è capace di guardare in avanti e che sarà assolutamente indispensabile quando altre cose non terranno più. Dobbiamo riconciliarci con la storia, abbiamo gli occhi dietro non davanti. Il problema è che dobbiamo, come Caritas, tenere ferma la prospettiva perché sarà l’unico traghetto che avremo per andare avanti se il resto non si sveglia.
Infine un ultimo passaggio sempre a partire dal metodo Caritas: discernere per animare. Un ultimo cambiamento è la capacità di passare dai sintomi alle cause. Certo, qualche volta è necessario intervenire sui sintomi: se ho il mal di testa, ad esempio, prendo l’aspirina; ma se il mal di testa continua probabilmente c’è una causa superiore al fatto eccezionale per cui l’aspirina è sufficiente.
Questo comporta un’altra difficoltà: fermarci a pensare perché le cose stanno come stanno. Motivo per non buttarci sulle cose, perché se ci buttiamo sempre sulle cose non avremo tempo per pensare. Prima facevo l’esempio della mensa: se la mensa ci occupa tutto lo spazio (reperimento alimentari, cotture, distribuzione) io non ho più tempo per guardare chi viene lì; mentre io devo occuparmi innanzitutto di chi viene lì, se ha ancora capacità residue per uscire dalla sua situazione. Perché a volte noi rispondiamo a dei bisogni creandone degli altri o aumentandone la quantità. Se io comincio a distribuire pacchetti di viveri oggi sono 10, domani 20, poi 30 ecc. non capirò più se ho creato io un bisogno o se sto rispondendo ad un bisogno, perché trovare roba gratis attira gente. Per queste ragioni ciò che state facendo, cioè una virata completa sulla relazione, diventa importante, è un segnale decisivo per mantenere lo spirito Caritas, perché altrimenti il rischio è di scivolare nel cosiddetto “stress da erogazione”.

Come passare dal “sintomo” alla “causa”?
Il problema di passare dal sintomo alla causa esige che noi diventiamo delle persone che pensano. Mi devo rendere conto del perché tutta questa gente ha bisogno: e allora troviamo cause sociali, culturali e politiche. Fattori su cui possiamo intervenire molto poco, ma non rinunciamo a fare questo lavoro di consapevolezza.
Se non ci stanno bene tutta una serie di cose, occorre trovare il modo di dircelo e di dirlo: non andremo in televisione, ma abbiamo il vicino di casa, il collega di lavoro, l’amico, i parenti, qualcuno della comunità. Bisogna che queste cose le facciamo passare.
Abbiamo tanti campi di esercitazione per dire il nostro parere: dobbiamo dirlo e comunicarlo. Qualcuno ci dirà che siamo esagerati, da destra o da sinistra, non importa che ci rispondano così perché magari qualcuno ci ripensa. Dobbiamo fare come quel seminatore che butta il seme anche se sa che in certi posti non attecchisce, ma lui lo butta. Dobbiamo buttare semi. Questa cocciutaggine nel portare avanti queste realtà che non vediamo, che non diventano fatti sotto i nostri occhi, è fondamentale se guardiamo un po’ più in là di noi, un po’ più avanti.
È il metodo della goccia, della formica, non vogliamo fare gli elefanti ed i fiumi in piena, ma quella goccia e quella formica che scavano una galleria, possiamo e dobbiamo farlo, dobbiamo trovare le modalità anche più insolite e meno ufficiali possibili, però è fondamentale altrimenti le comunità e le parrocchie rimangono ripiegate su se stesse: producono e consumano tutto al proprio interno senza far nascere nulla di nuovo.

 

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