Rigenerare la Carità: il metodo Caritas

scritto da Giovanni Perini il 17 March 2012 in 7 - E' stato sociale lo sarà ancora? and Opinioni e commenti con commenta

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C’è un brano, nella lettera di Paolo ai Romani, che può essere preso, a ragione, come inizio del nostro ascolto-riflessione. Si tratta di Rm 12,9-21 che comincia così: «La carità non sia ipocrita». Nella precedente traduzione la frase era leggermente addolcita: «La carità non abbia finzioni». In ogni caso questa espressione paolina lascia supporre che nelle sue comunità potesse esistere e praticarsi una carità non autentica, di facciata, solo esteriore, oppure una carità insufficiente all’altezza della specificità cristiana. Una carità quindi che non sente come problema la convivenza con la mancanza di stima vicendevole, di amore fraterno, di condivisione e ospitalità, di presenza di forme di vendetta (male per male!), di sentimenti di superiorità. Poco più avanti Paolo scrive una frase che dovrebbe essere stampata sui portali di tutte le chiese: «Non siate debitori di nulla a nessuno se non dell’amore vicendevole». […] Osservare, discernere per animare
Non è l’unica volta che Paolo sente di dover intervenire nelle sue comunità per correggere e riprendere una concezione e soprattutto una pratica riduttiva, falsante della carità. Basta a questo proposito aprire la prima lettera ai Corinti. Una comunità vivace, ma anche piena di sé, una comunità divisa dove ognuno pretende di essere superiore agli altri ed esibisce a conferma della propria superiorità i carismi, cioè i doni che lo Spirito distribuisce ai singoli e ai gruppi. Anche in questo caso Paolo non è tenero: i doni dello Spirito devono servire alla costruzione della comunità, hanno una utilità e una finalità comune, altrimenti sono illusioni. Per di più se sono dono, che diritto c’è di vantarsene o di ritenerli appannaggio personale, feudo e proprietà invalicabile?
C’era infatti chi si vantava di avere tanta fede, chi di saper fare miracoli e guarigioni, chi di saper parlare bene con capacità di persuasione, chi di parlare le lingue misteriose dello Spirito. Una comunità di superdotati!, ma in lotta tra di loro, che neanche si accorgevano così di spezzare l’unità del corpo ecclesiale di Cristo. Alle orecchie di qualcuno di noi Paolo sembra in questo caso un dissacratore: vendi pure tutti i tuoi beni e vivi in estrema povertà, porta pure alle estreme conseguenze la tua fede fino ad accettare il martirio, innalza pure le preghiere di tutte le creature angeliche e terrestri… ma se non hai la carità niente vale, perché di tutto «più grande è la carità».
Se pensiamo ancora che le comunità delle origini fossero perfette, questi passi ci chiariscono che il cristianesimo non è mai un dato scontato, anagrafico, culturale. Esso è piuttosto la gioiosa scoperta della carità come consistenza umana e come forma della fede. Non per nulla il cristianesimo delle origini ha riesumato un termine, trovato una sola volta nel mondo degli scrittori pagani, che suona “agape” e che contemporaneamente dice l’amore umano e l’amore divino e il pasto eucaristico, proprio perché in quest’ultimo si rende visibile la forza e il senso di cosa intende il cristianesimo per carità-amore.

Osservare

Nello statuto di Caritas italiana all’articolo 1 si trova scritto che la testimonianza della carità va realizzata «in forme consone ai tempi e ai bisogni». Nascono allora due domande: Quale carità testimoniamo oggi? Quali sono i tempi e i bisogni attuali?
Rispondere a queste domande, soprattutto alla prima, non è per niente facile, perché ci si deve basare proprio sull’osservazione empirica, sulle difficoltà manifestate nei vari incontri di formazione, nei dibattiti su temi attuali, così come è altrettanto complesso, non tanto osservare i bisogni attuali, ma leggerli secondo il processo che li ha creati o acuiti. Per di più bisogna dichiarare che qui si danno per scontati la disponibilità, la dedizione, il tempo e la fatica di migliaia di volontari, ma si deve cercare invece di rispondere alle domande emerse nell’ambito dell’ascolto delle lettere paoline.
Mi limito a fare una lista di quegli atteggiamenti o comportamenti, che al di là delle intenzioni del soggetto, inficiano l’autenticità e la nobiltà della carità cristiana.
1) Circola ancora nelle nostre comunità e non solo ai suoi margini la identificazione della carità con l’elemosina, a sua volta intesa come il lasciar cadere qualche spicciolo dentro la ciotola o la mano di uno che, appunto, chiede l’elemosina. La distanza incolmabile tra questa visione e quella per cui la comunità come soggetto unitario assume al centro del proprio essere e operare la carità e quindi il povero, rimane ancora un sogno, ma anche un peccato.
2) Il frazionamento dei soggetti che operano nell’ambito caritativo, che si vivono come i soli depositari del compito di aiuto e fanno grande fatica, quando non vera opposizione a collegarsi, a collaborare, a fare forza comune nelle persone, nelle risorse, nelle idee.
3) La prevalenza di una carità delle cose e non della dignità delle persone, per cui il dare prende assolutamente il primato sull’ascolto, l’accoglienza, l’accompagnamento.
4) La deriva assistenziale degli interventi caritativi che a fatica si muovono e accettano una direzione promozionale. Qui va chiarito che si tratta di prospettive. Si sa bene che ci sono situazioni incancrenite che non potranno forse più riacquistare una dimensione di autonomia. Ciò che è in gioco qui è la mentalità dell’operatore e non la garanzia della riuscita dell’operazione di fuoriuscita dal bisogno.
5) Simile alla precedente, ma con accenti più personali, si nota a volte una forma di paternalismo, che per se stesso è incapace di coinvolgere l’altro nell’assumersi la propria esistenza. C’è forse bisogno del povero per sentirsi bene con se stessi?
6) La carità è percepita come atto, azione e non come visione della società e del mondo, che implica l’esigenza di giustizia, così significativamente assente dalla nostra concezione e attuazione della carità. Non si tratta infatti solo di aiutare, ma di indirizzare, di mostrare alla società che c’è un’altra possibilità di vita e convivenza che nasce proprio da una carità seriamente vissuta.
7) La carità è certamente vissuta come gesto etico, ma non anche come gesto politico. La grande lacuna del volontariato di ispirazione cristiana è oggi, a mio parere, la sua totale insignificanza nell’organizzazione socio-politica della polis umana.

Discernere

Proprio l’ultima osservazione ci introduce nella tematica dei bisogni di oggi che il sopra citato statuto della Caritas ci chiede di prendere in considerazione. I nostri Osservatori delle povertà e delle risorse, anche molte altre agenzia private, come la Fondazione Zancan, portata pubblica come l’ISTAT, ci dicono unanimemente che la soglia
della povertà si è notevolmente innalzata, trascinando inaspettatamente persone e famiglie verso un baratro insospettabile fino a poco tempo prima. Gli operatori della carità si avventano spontaneamente il cuore sui sintomi della situazione, su ciò che emerge dallo stagno fangoso della società attuale. Rimane certamente sottinteso che questo passo è necessario, ma contemporaneamente bisognerebbe che insieme ci ponessimo domande che ci portino un po’ più a fondo situazione. Una volta si diceva “non cade foglia che Dio non voglia”, ma poverino, Dio è stato surclassato; oggi non cade foglia che la finanza non voglia.
Non sono in grado di addentrarmi in analisi raffinate di finanza economia. Mi basta interrogarmi sulle conseguenze di una certa impostazione e di una certa visione del mondo che sta dietro a giustificazione di tutto quello che noi oggi sperimentiamo con sofferenza. Pongo alcune domande nella speranza non solo che altri le condividano me, ma eventualmente mi aiutino a capire. C’è oggi un ritornello che a forza di sentircelo ripetere non ci fa pensare: «Non ci sono più soldi!»
Ma dove sono andati a finire? E poi, per chi non ci sono più mi pare che ce ne siano in abbondanza per alcune categorie, manager di grandi imprese, politici, capi di agenzie statali, parastatali, semistatali o private. Si sentono nominare retribuzioni e pensioni con cifre da capogiro. Cosa vuol dire democrazia? E che differenza tra una monarchia assoluta, una dittatura che affamano il popolo una democrazia che affama il suo popolo? E poi ci siamo resi conto che democrazia vuol dire potere del popolo e che quindi è il popolo e non più Dio che dà il mandato di governare per delega. Come allora quando il popolo sceglie cose che al potere di turno non stanno bene, si fa rientrare per la finestra quello che è uscito dalla porta, ad esempio il nucleare e il finanziamento ai partiti? Perché gli italiani sono forti a parole, ma così remissivi di fronte alla corruzione, ai pubblici latrocini, alla disonestà dilagante? C’è ancora qualcuno oggi ha paura di rubare molto? Non è in definitiva addirittura cosa da invidia?
Ciò che non finisce di stupirmi è il silenzio, che così diventa omertà, della chiesa intesa sia come gerarchia che come comunità cristiane.
Viene in mente la frase del profeta Isaia: «Non sopporto delitto solennità» (liturgiche). Portare in processione e adorare il volto scarnificato del Cristo sulla croce (che è di legno) senza collegarlo e intravvederlo nel crescente numero dei poveri creati da una ingiustizia globale è blasfemo.


Animare

Usiamo pure parole pesanti, perché in questi tempi non esiste più l’incredibile leggerezza dell’essere. Abbiamo davanti a noi il compito di rifondare una civiltà, che nell’espressione di Enzo Bianchi sta camminando verso la barbarie. C’è un urgente bisogno di avere e costruirci un disegno, un modello di uomo e di convivenza umana che prenda un’altra strada, che abbandoni i suoi idoli che sono sempre fallaci e bugiardi, come il denaro e la sua affannosa ricerca, come la fumosa famosità (mi si passi questo termine) per cui non si è nessuno se non si è visti da qualche milione di spettatori, unita al successo, alla carriera veloce e strabiliante con tutto quello che si può immaginare avvenga dietro le quinte.
La carità, che non ha mai fine, ha in sé le indicazioni e la forza di produrre novità. Abbiamo ancora tutti nella mente il grido espressivo di Paolo VI, quando chiedeva di fondare la civiltà dell’amore. Lo sappiamo tutti che il benessere dell’uomo e delle comunità non sta in primo luogo nella quantità di beni che si possiedono, ma nella qualità buona delle relazioni, purché non si aspetti che sia sempre un altro a cominciare. Il motivo per cui la carità può cambiare il mondo è perché innanzitutto essa converte il cuore dell’uomo e delle comunità e permette di discernere quale sia davvero l’essenziale alla vita. L’amore vero, come quello che traspare dal Vangelo e soprattutto dal comportamento di Gesù non può fare a meno di coniugarsi con la giustizia, la responsabilità e la cura per l’altro, la denuncia e la lotta ad ogni forma di male, la rettitudine e l’onestà, il rispetto dell’altro e delle sue diversità.
C’è qualcuno che non vorrebbe vivere in un mondo dove i bambini non muoiono di fame o non sono imprigionati in una fabbrica di scarpe o palloni, dove la gente non sia obbligata a costruirsi catapecchie che diventano sterminate bidonville? In un mondo dove la libertà non sia priva di contenuti che sono i diritti riconosciuti e attuati per ogni uomo? E se restringiamo il cerchio, c’è qualcuno a cui non piacerebbe vivere in armonia con la sua famiglia, avere un lavoro sicuro, allevare e mandare a scuola i figli, curarsi quando si è malati, avere vicini gentili, trovare comprensione per le proprie debolezze? E c’è qualcuno che vorrebbe non essere giudicato in base alla resa economica, ma alla sua umanità, trovare una patria quando la tua ti ha rifiutato? Oppure c’è qualcuno che vorrebbe che la destinazione per le costosissime armi da guerra (sempre come ci ricorda Isaia: lance trasformate in falci e spade in aratri) andasse per costruire strade, giardini, ospedali, scuole, arte e bellezza?
Non ho timore che qualcuno giudichi queste prospettive come luoghi comuni, sogni irrealizzabili di poeti falliti, ho molta più paura che nessuno di noi alzi la mano per cominciare.

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